«È un viaggio, questo cammino, che serve soprattutto a noi adulti». Lei ne è convinta Maria Beverina, insegnante di scuola primaria, attivamente coinvolta nel progetto. «Ciò che abbiamo apprezzato del progetto e uno dei motivi per cui abbiamo accettato, al di là della validità della proposta formativa, è che non esisteva un pacchetto pronto: stiamo tracciando la strada, percorrendola insieme: noi, i genitori, i bambini, gli educatori. C’è un corresponsabilità per educarsi e crescere a vicenda, non delega. E quanto dobbiamo imparare dai piccoli, quanto!».
Partiamo dall’inizio, dall’elaborazione della fine: quali sono le cose che voi educatori imparate ogni giorno, prendendovi cura delle persone in hospice, e che portate in questo progetto?
Marta Scrignaro (MS): «Lì sentiamo la finitezza con le nostre mani, ogni singolo istante. Quando c’è una traiettoria di incurabilitàentriamo nell’ambito di quanto definito “limitante e pericoloso per la vita”, cioè, quando si avvicina il momento della morte, il bambino e i suoi genitori insieme, subiscono numerose morti: ad esempio, quello di perdita delle funzioni fisiche o mentali nel paziente, o nei genitori, lutto dei sogni, dell’immaginazione…».
Che sogno? Puoi spiegarti meglio?
SM: “Diventare genitore e poi esserlo risveglia un processo di immaginazione, non solo mentre si aspetta il bambino, ma anche mentre lo si alleva. Essere genitori è un processo ed è alimentato da tanti piccoli desideri. Quando tuo figlio si ammala e l’epilogo è inevitabile e incontrovertibile, dentro di te muore il ruolo del genitore, muore il sogno, un’intera vita immaginata. Questo lo dicono tutti, e non c’è niente di più vero: la morte di un figlio è un fatto innaturale per un genitore e ti strappa l’identità, manda in frantumi il senso della vita. Ecco qui accompagnare queste persone ad accettare la fine di chi hanno generato, e quindi di una parte di sé, è un mistero a cui ci avviciniamo con immenso rispetto e che cambia anche noi”.
Allora diventa ancora più importante parlare della fine, soprattutto con chi ha ancora tutta una vita davanti da vivere insieme…
MS: «Esattamente, parlare della fine o delle fini – quindi anche della morte – ci predispone a vivere più intensamente. Finora ci occupavamo della morte solo quando diventava imminente e, se accadeva all’improvviso, era ancora più inquietante. Siamo arrivati prima di lui, totalmente inadeguati e impreparati. Oggi, camminargli accanto, parlarne, aiuta a far emergere tutte le paure, tutti i disagi, il senso delle cose, ma soprattutto Ci aiuta a capire che non siamo soli. L’obiettivo è creare una comunità educante, dove si diventa rete: di connessione, di soccorso, di protezione. Siamo una rete di mani e di cuori, e parlare della paura aiuta a consolidare i rapporti, non solo tra i familiari, ma tra tutti”.
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