Comincia da Rafah l’ennesimo schiaffo di Netanyahu alle preoccupazioni di Biden – .

Comincia da Rafah l’ennesimo schiaffo di Netanyahu alle preoccupazioni di Biden – .
Comincia da Rafah l’ennesimo schiaffo di Netanyahu alle preoccupazioni di Biden – .

IL Bombardamenti israeliani a Rafah, il più grande dall’inizio della guerra di Gaza, ne sono la prova Benjamin Netanyahu e Joe Biden Bibi è in testa alla partita. La sua reputazione si indebolì e perse una parte significativa dei consensi conquistati presso l’opinione pubblica occidentale dopo le stragi del 7 ottobre. strategico nella sua determinazione a condurre una guerra totale ma ancora capace di dare le carte alla Casa Bianca. Netanyahu spreca l’accettazione, peraltro tardiva, di una qualche forma di cessate il fuoco da parte di Hamas e bombarda Rafah, città nel sud della Striscia di Gaza che è una chiave di volta per i collegamenti tra la terra assediata e l’Egitto, e quindi verso il resto del mondo, in e se non è l’inizio dell’offensiva finale (nelle speranze di Israele) è almeno la fine del fase di attesa iniziale. E lo fa nel giorno in cui Biden, chiamandolo, esprime per l’ennesima volta «preoccupazione».



Sono le stesse pressioni che ricordiamo furono esercitate lo scorso 11 febbraio, quando a Rafah cominciò a circolare la voce che Biden stava perdendo la pazienza. Allora Netanyahu si è detto favorevole all’evacuazione di Rafah, innescando l’esodo biblico di un milione di abitanti di Gaza verso l’Egitto per lanciare la sua offensiva. L’invito è stato ribadito il 16 febbraio e 18 marzo. Trama nota: Biden ha espresso “preoccupazione”, ha invitato Netanyahu a ragionare, ha proposto di stabilire delle linee rosse nei confronti del suo alleato. Netanyahu ha rassicurato i falchi del suo governo: non bisogna rallentare nella corsa per la vittoria. Sono seguiti giorni di silenzio israeliano volti a far scomparire le preoccupazioni. E via con un altro giro di giostra. Aprile è stato occupato dallo stallo Israele-Iran mentre la guerra a Gaza continuava. E forse nella sua natura contraddittoria, il mese che ha confermato chiaramente che è Netanyahu ad aver bisogno degli Usa e dell’Occidente, come ha dimostrato la risposta ai raid iraniani con droni e missili, e non il contrario, ha prodotto un contesto in cui un Le cancellerie amichevoli di Tel Aviv non hanno posto alcuna condizione che possa aprire la strada ad una soluzione non disastrosa del conflitto. Infine, oggi Biden ha chiamato Netanyahu. Al che ha risposto aprendo il fuoco a Rafah in quello che sembra il più classico dei preparativi per la potenziale apertura di un nuovo fronte terrestre.

Qui non si tratta di distribuire colpe o responsabilità della guerra, ma di fare un freddo ragionamento strategico sulla sicurezza collettiva. L’offensiva di terra su Rafah è la non più ultraIl Piano Caos di Netanyahu: avanzare verso il valico smantella la Striscia di Gaza come la conosciamo e rischia di aprire non solo un esodo a mosaico inverso dei palestinesi attraverso il Sinai, ma anche la destabilizzazione generale del tessuto politico e diplomatico regionale. Inoltre, dando un aiuto politico ad Hamas, che beneficia dell’indebolimento di Israele. Biden tutto questo lo sa. Ma la pressione politica a non voler abbandonare Israele appare più forte di ogni considerazione politica. Ogni linea rossa richiesta dagli Usa sembra essere la base con cui Netanyahu intende esercitare pressioni per negoziare una spinta per sostenere nuovi obiettivi. E così, paradossalmente, gli Stati Uniti si ritrovano incapaci di abbandonare l’operazione del loro più stretto alleato mediorientale proprio quando avrebbero la maggiore leva negoziale contro di loro. Non ultima, ma non meno importante, la prospettiva di un maxi-accordo tra Washington, Tel Aviv e Arabia Saudita che rafforzerebbe le posizioni di tutti e tre gli attori in un’area caotica.

“Biden resta determinato a respingere le richieste globali per l’immediata cessazione dell’assalto militare israeliano contro una popolazione affamata e in gran parte indifesa. Non solo Biden ha respinto categoricamente la proposta di utilizzare la minaccia per fermare la vendita di armi a Israele”, ha osservato a febbraio L’intercettazioneaggiungendo che la Casa Bianca si è messa all’angolo con dichiarazioni compromettenti e disastrose: “un’operazione militare non dovrebbe procedere senza un piano credibile ed eseguibile per garantire la sicurezza e il sostegno dei civili a Rafah”. Parole al vento che non tengono conto del possibile disastro militare e umanitario. A ciò si aggiunge l’aumento del flusso di armi verso Israele, considerato un poliziotto insostituibile capace di essere un deterrente contro l’Iran, i suoi alleati e altri attori considerati avversari da Washington, che non vuole rinunciare alla sua vera presenza in un Medio Oriente da cui è impossibile staccarsi. La nazione ha ricordato che Biden è ben consapevole dei “tre no” con cui Netanyahu affronta la crisi di Gaza: “nessuna soluzione basata su due Stati, nessuno Stato di Palestina e, molto probabilmente, nemmeno i palestinesi nelle loro terre storiche”. Ma tuttavia non interviene alla radice del problema. Cioè, facendo leva sul suo peso politico per far capire la necessità di farlo non porre fine ad una guerra in cui gli obiettivi militari appaiono ormai secondari e in nome del quale Netanyahu giustifica la sua permanenza al potere. Netanyahu parla, rassicura Biden, poi fa il contrario: e fuori linea rossa dopo linea rossa. Biden ha fatto sapere a gennaio che stava “perdendo la pazienza” con Netanyahu. Quasi quattro mesi dopo, Bibi è pronto a superare anche la linea rossa più evidente che gli viene chiesta. Forse perché sa che a Washington sarà difficile, per esperienza storica, fare a meno di Israele. Soprattutto se l’America è sempre più incerta nel capire cosa vuole veramente per l’ordine globale.

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