Cosa ci insegna la morte del presidente Raisi. La ricostruzione di Polillo – .

Cosa ci insegna la morte del presidente Raisi. La ricostruzione di Polillo – .
Cosa ci insegna la morte del presidente Raisi. La ricostruzione di Polillo – .

Se l’Iran non è in grado nemmeno di proteggere i suoi massimi dirigenti, ad esempio da normali infortuni legati alla semplice logistica, come può pensare di giocare un ruolo da grande potenza regionale, capace di influenzare le strutture dell’intero Medio Oriente? Il dubbio di Polillo

26/05/2024

Il mistero della morte di Ebrahim Raisidel Ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian e i vari membri dell’entourage iraniano sollevano interrogativi a cui è difficile rispondere. Ma non possono ancora essere ignorati. Tentare di rifletterci è quindi necessario non tanto per descrivere l’esatta dinamica del disastro, ma per evidenziare quelle criticità che ne furono all’origine. E allora meglio partire dall’ipotesi più semplice. Non è stato un atto desiderato, ma solo una dichiarazione del destino. Basterà questo atto consolatorio a rassicurare tutti? Ne dubitiamo.

Il minimo che si possa dire è che si è trattato di un misto di incompetenza e mancanza di lungimiranza. Il che, considerata la vita di colui che, secondo le quasi certezze dei commentatori, avrebbe dovuto prendere il posto dell’attuale Guida Suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, non è davvero una cosa da poco. Dalle poche informazioni, che hanno un minimo di certezza, si può dedurre che la formazione aerea che accompagnò il viaggio di Raisi in una zona impervia del Paese, non solo dal punto di vista geografico ma politico, era composta da tre aereo.

Il Bell 212, che poi si è schiantato con a bordo gli esponenti della casta iraniana, un secondo Bell (a due o quattro pale – Bell 412 – non è chiaro) e infine un terzo: un Mi-17/171 di fabbricazione russa. Molto meglio attrezzati non solo per volare sopra quelle montagne, molte delle quali sono più alte del Monte Bianco. Ma dotati dell’equipaggiamento necessario per rispondere ad eventuali attacchi nemici. Dei tre velivoli, quindi, Raisi aveva scelto il peggiore. Un elicottero che era stato acquistato addirittura dallo Scià di Persia, Reza Pahlevigià negli anni ’70.

E che da allora era stata mal mantenuta a causa dell’embargo decretato dagli Stati Uniti contro un regime sanguinario. Embargo, deciso per la prima volta nel 1979 in seguito all’assalto all’ambasciata americana a Teheran, che prevedeva nello specifico il divieto di vendita di aerei e pezzi di ricambio alle compagnie aeree iraniane. E poi rinnovata più volte fino a comprendere quasi tutto l’Occidente. Dati questi vincoli, le uniche revisioni effettuate sono state quelle rese possibili dall’acquisto di materiale contraffatto o da pezzi di ricambio ottenuti grazie al reverse engineering. Quella tecnica che prevede la lavorazione artigianale dei pezzi da sostituire. Il che va bene per i componenti più semplici. Ma quando si tratta di strutture complesse il compito diventa quasi impossibile.

Si tratta, in definitiva, di un vecchio elicottero, questo assegnato al presidente, nel quale era del tutto assente la strumentazione elettronica necessaria per far fronte alle difficoltà del viaggio. Che doveva svolgersi in condizioni atmosferiche proibitive, a causa di una fitta cortina di nebbia che impediva il volo a vista: unica risorsa di piloti che non brillavano certo per la necessaria preparazione ed esperienza. Come già era evidente durante la guerra con l’Iraq. Va solo aggiunto che quello di Raisi è stato il suo primo viaggio fuori dai confini del Paese, per avvicinarsi all’Azerbaigian, dove ha inaugurato le dighe di Qiz Qalasi e Khodaafarin. Che la scelta di salire su quell’elicottero sia stata, fin dall’inizio, imprudente è fin troppo evidente. Ma lo è anche il fatto che la responsabilità di quella decisione, almeno per quanto ne sappiamo, non è del Presidente, bensì della sicurezza.

Ed ecco allora, una prima riflessione. Ma se l’Iran non è in grado nemmeno di tutelare i suoi massimi dirigenti dai normali infortuni legati alla semplice logistica, come può pensare di giocare un ruolo di grande potenza regionale, capace di influenzare gli assetti dell’intero Medio Oriente? Finora, grazie all’aiuto fornito a Putin e alle mire espansionistiche del Cremlino, aveva tentato di accreditarsi come uno dei maggiori protagonisti dell’opera di destabilizzazione. Opera in Palestina, Libano, Siria e nel Mar Rosso attraverso il braccio armato di milizie compiacenti, unite sotto la bandiera dello sciismo. Per battere, allo stesso tempo, i sunniti, gli israeliani e i loro alleati occidentali. Ha fornito a questi gruppi armi e finanziamenti. Ma si trattava di dispositivi piuttosto rudimentali, a causa della limitata base tecnologica dell’intero Paese.

La fine prematura di Raisi ha, in qualche modo, reso evidente questa debolezza. Dimostrato che il re era nudo. Quella sorta di morte annunciata, dovuta alle lacune esistenti nelle più elementari norme di prevenzione (sia materiali che di intelligence), ha evidenziato una debolezza strategica che, in futuro, non potrà essere ignorata. Se finora l’Iran ha saputo alzare la voce, se gli Houthi continuano a tenere sotto controllo gran parte dei traffici commerciali tra l’Estremo Oriente e il Mediterraneo, ciò è dovuto al fatto che l’Europa, per troppo tempo, si è trasformata dall’altro, delegando soprattutto agli Usa il compito di difendere questo piccolo angolo di paradiso. Una scelta certamente opportunistica, ma anche realistica, anche se solo fino a un certo punto. Indipendentemente dagli errori commessi da Washington (tutti non pochi), questo schema potrebbe funzionare, purché gli Stati Uniti abbiano i propri interessi da difendere. Ma quando anche questo è scomparso, si è creato un vuoto che perfino un “imperialismo furioso” – si sarebbe detto qualche anno fa – è capace di colmare.

E se non si fosse trattato di un semplice incidente? La domanda è tutt’altro che strana. E circola con insistenza tra i lavoratori. Tuttavia, l’idea di un possibile complotto, come normale strumento di lotta politica in una realtà caratterizzata da una totale assenza di democrazia, non altera minimamente lo schema descritto. Semmai lo colora di una tonalità ancora più scura che non modifica, ma peggiora i dati sottostanti. Da un lato un Paese troppo debole per poter svolgere il ruolo di grande potenza a livello regionale, che vorrebbe anche far proprio. Dall’altro, un’Europa, capace di prevenirlo, ma troppo distratta nel percepire i suoni di un pericolo crescente. Nell’illusione che il quieto vivere sia una condizione indispensabile.

Sarebbe bello e comodo. La condizione ideale in un mondo senza guerre e conflitti. Ma sfortunatamente non è così. Infatti, non basta non pensarci perché le cose non succedano. Esse, al contrario, sono indipendenti dalla volontà di ciascuno di noi e allora, anziché chiudere gli occhi e ritrovarci improvvisamente nell’incubo del 7 ottobre scorso, quando Hamas compì quell’orrenda strage di poveri innocenti, è meglio pensare a riguardo in tempo. E fornire. Speriamo che le prossime elezioni europee siano anche il necessario campanello d’allarme per ricominciare a pensare.

 
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