la riscoperta della resinatura del larice della Valle dei Mòcheni, simbolo delle mille sfumature del legame tra l’uomo e il bosco – .

L’oro della foresta. Così la definisce Paola Barducci, in arte “Forestpaola”, medico forestale, guida locale e divulgatrice toscana ma di casa da anni nella Valle dei Mòcheni, in Trentino. Si riferisce alla resina di lariceun prodotto forestale oggi sconosciuto ai più, ma fino a qualche decennio fa ancora estratto con un metodo tradizionale che prevede la creazione di una profonda buca alla base delle piante prescelte. Una tecnica conosciuta e praticata da almeno 500 anni, che oggi rischia di perdersi completamente nelle profondità della modernità.

Per lungo tempo Paola ha osservato e studiato i larici dei boschi in cui vive e lavora, poi, quattro anni fa, dopo il via libera del Comune di Palù, ha ottenuto l’autorizzazione a riprendere l’attività di raccolta della resina da una parte di il comprensorio forestale di Pergine Valsugana. Così, insieme ad un custode locale di questa antica tecnica, è diventato esso stesso uno foglio largooppure una macchina per la resinatura del larice. Non per commercializzare il prodotto, ma unicamente per passione, con l’obiettivo di preservare un pezzo importante della memoria collettiva. Perché la memoria, come scrive Paola sul suo account Instagram: “È come la radice di un albero: dobbiamo creare le condizioni migliori perché continui a crescere e a connettersi con il mondo.

Pochi giorni fa ha pubblicato a bobina in cui mostra l’attività di resinatura svolta nella primavera di quest’anno e abbiamo colto l’occasione per farle alcune domande.

Puoi descriverci com’è stato incontrare la pratica della resinatura del larice? Come ti sei accorto della presenza di alberi che un tempo erano ricoperti di resina e cosa poi ti ha spinto ad approfondire la storia che si nasconde dietro quei buchi alla base degli alberi?

Da anni cammino nei boschi del Trentino, per lavoro come medico forestale e per passione. In più occasioni ho ritrovato questi strani tasselli alla base di larici di diametro medio-grande, e dal mio passato universitario mi è tornata in mente una lezione del mitico professore. Piussi, che ci ha spiegato i prodotti “secondari” del bosco, quelli ormai legati a tradizioni del passato e forse in parte dimenticati. E mi è sembrato davvero un peccato che questo utilizzo, seppure ormai marginale, sia stato del tutto ignorato dalle persone, da chi vive in zona montagna, ma anche da chi nei fine settimana va nei boschi a rilassarsi: nel tempo, infatti, abbiamo relegato il bosco al solo scopo turistico-ricreativo mentre svolge ancora, spesso silenziosamente ai più, numerose funzioni.

Così ho cominciato a chiedermi e a fare domande, agli anziani o ai guardiani forestali, su quale fosse il procedimento e se fosse riproducibile, anche al solo scopo di mantenere la storia del territorio.

L’incontro con Michl, appassionato wideman (persona che estrae la resina del larice Largo appunto) mi sta insegnando ancora molto su questa pratica ma anche sul bosco e sulle piante.

A cosa serviva la resina di larice? Come è stato trasformato e utilizzato nelle comunità alpine?

In passato la resina, chiamata “Trementina di Venezia”, veniva utilizzata principalmente per due usi: uno familiare, per realizzare unguenti e unguenti per curare reumatismi, ferite e togliere schegge di legno; una diciamo più “industriale”, per produrre vernici, colle e vernici. Infatti, grazie alle sue proprietà tecniche (viscosità, elasticità e durabilità), sono state create vernici che mantenevano la flessibilità del legno.

Non va infine dimenticato che la resinatura permette alla resina di scendere in prossimità del foro, evitando così accumuli in piccole sacche lungo il tronco; questa pratica migliora quindi la qualità del legno: alcune segherie tradizionali lo sanno bene, e quando trovano tanto legno di larice nelle zone resinate acquistano volentieri questi tronchi!

“Ci sarà un motivo se non si usa più la resinatura del larice!”: così potrebbe obiettare qualcuno se vi vedesse impegnati a insistere su questa tecnica ormai in disuso. Perché ritieni importante mantenere viva la pratica e, con essa, il prodotto che ne deriva?

Siamo ormai abituati a vedere il bosco come un luogo legato alle nostre passeggiate ed escursioni, un luogo dove rilassarci o praticare uno sport. Ma la foresta, quella che attraversiamo, è così perché nei secoli è stata coltivata, tagliata, ripiantata, privilegiando alcune specie rispetto ad altre, garantendone la continuità: ogni albero potrebbe raccontare la propria storia! Il faggio per il suo legno tanto apprezzato per ricavarne il carbone, l’abete rosso per il suo legno che poi scorreva attraverso i torrenti verso la Serenissima di Venezia, il pino domestico per il suo legno profumato e rilassante e… il larice?

Il larice è spesso associato ai pascoli alberati, a quelle zone che, soprattutto in passato, garantivano la crescita dell’erba sotto la chioma ma allo stesso tempo ombra per il bestiame e legname per il proprietario. Tuttavia, tutti questi alberi hanno storie ancora più segrete, legate ad usi tradizionali ormai caduti in disuso: ad esempio, le donne delle valli scendevano con grandi gerle per vendere pigne di abete rosso come semi per futuri boschi o per accendere stufe. Così la resina di larice aveva un ruolo importante nella vita quotidiana delle famiglie di montagna, soprattutto come unguento, ma anche come gomma da masticare! Perché dimenticare queste tradizioni, appiattindo di fatto un tema, il bosco, che è invece caratterizzato da dossi e valli, alte densità e aperture erbose…non è forse più arricchente raccontare e tramandare tutte queste sfumature?

Al giorno d’oggi qualcuno potrebbe pensare che con questi buchi “si fa male all’albero”. Sei un educatore ambientale e sicuramente sarai abituato a questo tipo di sensibilità nei confronti della natura. Cosa risponderesti? (O quello a cui hai già risposto, se questa domanda ti è effettivamente capitata!)

Sì, mi è stato chiesto! Ed è giusto così, considerato che le persone che accompagno o che mi seguono sui social hanno generalmente una particolare sensibilità verso le tematiche ambientali e la cura e tutela del bosco.

È vero che viene fatto un buco, e che questo corrisponde a una ferita nella pianta, ma a differenza delle normali ferite che una pianta subisce nel tempo (un sasso che rotola dall’alto, un ramo che si spezza, un fulmine o la caduta di un albero vicino) questo viene immediatamente chiuso tramite il tappo, impedendo così efficacemente l’ingresso di agenti patogeni, come insetti, funghi, virus o batteri. Il tappo, infatti, viene sigillato internamente con la resina prodotta immediatamente dall’impianto, bloccando così ogni possibile ingresso di agenti esterni.

Inoltre queste piante da resina rappresentano una piccola percentuale del totale ed ogni anno, più volte nelle varie stagioni, ad es widemen ne controllano lo stato fitosanitario, sostituendo il cappello o osservandone le caratteristiche principali come chioma e tronco: sono infatti le piante più controllate e amate da chi vive nella foresta, garantendone la continuità.

Sei un “bosco” – in senso straniero – che dalla Toscana ha scelto di vivere in una valle trentina, la Valle dei Mòcheni. Ridare vita a questa antica tradizione è stato anche un modo per affondare le proprie radici in questa valle? Per sentirsi parte della sua storia?

Lo dico sempre, non mi chiamo più Paola, ma Forestapaolaperché sono un medico forestale e furioso, proveniente dalla Toscana. Questa origine è ancora forte e tangibile nel mio discorso, ma il mio cuore ormai è tutto trentino. Qui mi sento a casa, qui ho costruito la mia vita professionale e personale: ho infatti deciso di acquistare una casa in Valle dei Mòcheni e di vivere con la mia famiglia, un marito foresta come me e due bambini nati e cresciuti qui.

Quando sono arrivato qui, nonostante avessi studiato, Ho imparato a guardare il bosco con occhi diversi, anche grazie al contributo delle persone del posto e di libri che raccontano un rapporto complesso e stretto tra l’uomo e il bosco: di tutte queste sfumature non si parla tanto all’esterno, preferendo tenerle nel privato o talvolta dimenticarle. In particolare, mi sono reso conto che molti dei racconti degli anziani sugli usi del bosco rischiavano di essere ricordati solo all’interno delle famiglie, e chissà per quanto tempo. Così, senza voler essere invadenti ma con il solo intento di mantenere una traccia, un ricordo, Mi faccio portavoce degli antichi (ma anche attuali) usi tradizionali, e forse non convenzionali, del legno e delle piante in generale.

Come dico sempre… Sono solo un camminatore su sentieri creati da altri: con il mio ritmo continuo ne mantengo la percorribilità. Sta a te decidere se vuoi davvero venire a camminare in una foresta, godendo della complessità delle funzioni, dei ruoli e degli usi che essa svolge!

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Paola Accompagnatrice Trentino (@forest_paola)

 
For Latest Updates Follow us on Google News
 

NEXT fare la coda nonostante il caldo – .