«L’importazione di gas dal Congo voluta finora dall’Eni è solo un fallimento», rivela un’indagine di Greenpeace Italia – .

«L’importazione di gas dal Congo voluta finora dall’Eni è solo un fallimento», rivela un’indagine di Greenpeace Italia – .
«L’importazione di gas dal Congo voluta finora dall’Eni è solo un fallimento», rivela un’indagine di Greenpeace Italia – .

Da un’indagine condotta dall’unità investigativa di Greenpeace Italia emerge che il progetto “Congo LNG” di ENI, promosso dalla società e dagli ultimi due governi in carica in Italia per importare gas naturale liquefatto (GNL) dalla Repubblica del Congo e compensare così una parte del fallimento importare di gas fossile dalla Russia, è un’iniziativa piena di ombre, utile anche al colosso energetico italiano per nascondere e delocalizzare parte delle sue emissioni.

Secondo quanto rilevato da Greenpeace Italia, infatti, appena il 15% dei quantitativi di gas annunciati in pompa magna da ENI sono finora arrivati ​​in Europa dal Congo, con un contributo praticamente nullo al fabbisogno energetico dell’inverno 2023-2024. . Secondo quanto denunciato dall’organizzazione ambientalista, inoltre, durante il primo trasporto di GNL congolese destinato all’Italia, sono stati bruciati inutilmente 2,7 milioni di metri cubi di gas, per un valore di 800mila euro (pari al consumo annuo di 3.243 famiglie italiane), liberando 8mila tonnellate di CO nell’atmosfera2 equivalente. La nave da trasporto, infatti, ha dovuto vagare per 27 giorni nel Mediterraneo occidentale perché il terminale di Piombino non aveva slot liberi per scaricare il GNL a bordo.

Il progetto Congo LNG, secondo ENI, dovrebbe costituire anche un’occasione per evitare che, come accaduto fino ad oggi, parte del gas venga bruciato con i cosiddetti svasato, che aumenta le emissioni senza produrre energia. Le difficoltà incontrate dal primo carico nel viaggio dall’Africa all’Italia hanno però vanificato l’operazione perché, come previsto, parte del gas sottratto alla svasato veniva sprecato durante il trasporto via mare, con conseguenze ancora più impattanti sul clima. Paradossalmente, questo permette ad ENI di vantarsi di aver ridotto il flaring in Congo e di risanare in parte i propri bilanci di sostenibilità scaricando gli oneri sulle spalle del settore a metà del corso d’acqua e all’armatore della nave le emissioni legate al gas perso lungo il percorso.

«Le industrie fossili come l’ENI hanno sfruttato la guerra in Ucraina per accreditarsi come paladine della sicurezza energetica, mentre in realtà cercano solo di proteggere i profitti garantiti dai combustibili fossili, rallentando lo sviluppo delle fonti rinnovabili e aggravando la crisi climatica», commenta Simona Abate di Greenpeace Italia. «Nel caso del Congo, la nostra indagine smaschera sia questo tentativo dell’Eni di dimostrarsi indispensabile per la stabilità energetica del Paese, sia la modus operandi del piano Mattei, che si rivela un progetto utile solo agli interessi dell’industria fossile. Siamo di fronte a un fallimento che dimostra ancora una volta come la sicurezza energetica non possa essere garantita dal gas fossile, ma solo dalle fonti rinnovabili”.

Leggi il rapporto completo e la risposta di ENI

 
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