Abortisti di ieri, oggi e domani. – .

Abortisti di ieri, oggi e domani. – .
Abortisti di ieri, oggi e domani. – .

Di seguito riporto all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Leonardo Lugaresi, pubblicato sul suo blog. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste

Feto di 12 settimane nel grembo materno

Forse occorre far capire che l’aborzionismo odierno è profondamente diverso da quello “storico”, che circa mezzo secolo fa diede origine a legislazioni che generalmente consentivano l’aborto a determinate condizioni, entro certi limiti e sotto il controllo pubblico. È moralmente e politicamente suo figlio e, senza le ipocrisie e le menzogne ​​in esso presenti, non avrebbe potuto svilupparsi, ma rispetto ad esso ha fatto un salto di qualità che lo rende culturalmente diverso e sostanzialmente incompatibile con la posizione che era difeso all’epoca e promosso dai predecessori degli attuali abortisti.

Abortismo storico infatti ha detto: l’aborto è un male, ma poiché esiste ed è diffuso nella società, lo Stato non può ignorarlo e deve gestirlo politicamente. Attenzione: il difetto (e il veleno) di questa affermazione, apparentemente incontrovertibile, stava nel fatto di dare per scontato che l’aborto fosse un male, ma solo perché: a) era qualcosa a cui la donna si sottoponeva contro la sua volontà, b) a causa della secondo la normativa fino ad allora vigente era confinato alla clandestinità, cioè al più assoluto privato. Il problema del diritto alla vita del feto non è stato considerato, anzi è stato volutamente evitato. In altre parole, quell’aborzionismo lì si presentava come un “antiaborzionismo realistico”, che però rifiutava di riconoscere che l’aborto è radicalmente malvagio perché consiste nell’uccisione di un essere umano. Date le premesse, l’aborzionismo storico concluse che era necessario: a) “socializzare” l’aborto come procedura da effettuarsi esclusivamente nell’ambito del sistema socio-sanitario pubblico (continuando, si badi bene, a criminalizzare l’aborto “privato”); b) mettere le donne nella condizione di non dover “soffrire” la decisione di abortire. Frutto di questo approccio è la legge 194 del 1978 che, non per nulla, porta il titolo di «Norme sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza». Nella concezione dell’aborzionismo storico, una volta raggiunti questi due obiettivi, l’aborto legale cessa di essere un male, ma non si ha l’impudenza di affermare che sia un bene (tanto che all’epoca non si parlava di “diritto di aborto”). Diventa piuttosto l’esercizio di una libertà di scelta individuale ma socialmente controllata, il cui contenuto è considerato moralmente secondario, se non proprio indifferente. Per la parte liberale della cultura dell’epoca ciò che contava era il fatto che la “libertà di scelta” fosse ancora un bene (nel titolo “interruzione volontario di gravidanza” l’aggettivo riscatta il sostantivo e il complemento specifico); per la parte marxista (che all’epoca era egemonica) il punto era la socializzazione (“protezione sociale»), in base al dogma che dove arriva lo Stato (guidato naturalmente da esso) arriva la salvezza; quanto ai “cattolici adulti”, potevano consolarsi con la parola “maternità” (che allora non era affatto quella bestemmia che è diventata oggi) e con l’obiezione di coscienza, sulla quale tornerò tra poco.

Per diversi decenni si andò avanti così: il mantra “Non toccare il 194!”, gridato istericamente ogni volta che qualcuno tentava di sollevare l’argomento, era il suggello di una status quo che, in definitiva, si adattava a tutte le forze politiche. Nel 1981 si dimostrò democraticamente con un referendum promosso dal Movimento per la Vita che il 194 piaceva al 68% degli italiani, mentre solo il 32% di noi pensava che il diritto alla vita degli esseri umani, anche se non ancora nati, contasse qualcosa . Era la rivelazione di un disastro antropologico, rispetto al quale un combattivo giornale cattolico dell’epoca, “Il Sabato”, titolava brioso ma superficiale: “Ricominciamo dal trentadue”. E don Giussani, che vedeva più profondo e più lontano degli altri, ruggì: «No! Ricominciamo da Uno”. La questione è ancora esattamente quella che lui ha colto così bene il nocciolo della questione, solo che il disastro antropologico è di un ordine di grandezza maggiore. Quasi nessuno, infatti, ricorda che nel maggio 1981 si votò anche un altro referendum per l’abrogazione della 194, quello promosso dai radicali, che già allora, in sostanza, volevano l’aborto libero, senza condizioni e senza limiti. Quasi nove italiani su dieci hanno detto no (oltre l’88% dei votanti). Segno inequivocabile che quarant’anni fa erano ancora pochissimi a considerare l’uccisione di esseri umani come un bene da tutelare giuridicamente.

Questo è esattamente il punto sottolineato da neoaborzionismo attuale, che non si riconosce più neanche nel 194, e lo accetta collo osso, in attesa di meglio, e solo a condizione che continui a essere disapplicato in tutte le parti che si ispirano al principio di evitare il più possibile l’aborto mettendo le donne nella condizione di non sceglierlo. Di qui le feroci proteste che si sono sollevate anche recentemente contro questa possibilità – del tutto conforme allo spirito e alla lettera della 194! – che all’interno del processo abortivo la donna sia aiutata anche a riconsiderare la sua scelta, entrando in contatto con chi può offrirle strumenti e aiuto in questo senso. È chiaro che la libertà di scelta non è più un valore in sé, ma solo se indirizzata nella direzione prescritta, che in questo caso è quella della soppressione del feto. Della socializzazione, un tempo tanto cara alla sinistra, non importa a nessuno. Già quattro anni fa l’allora ministro della Sanità, il sinistro Speranza, lo aveva chiarito elogiando la pillola abortiva che permetteva alle donne di fare tutto da sole in casa. (Vedi Qui) La maternità ormai è un valore negativo e quanto all’obiezione di coscienza, diciamo la verità, ormai fa incazzare tutti. Siamo infatti entrati in un clima culturale di neoassolutismo statalista, che è per certi versi agli antipodi di quello degli anni Sessanta/Settanta: ricordo che allora il principio dell’obiezione di coscienza – che è di per sé un principio giuridico di straordinaria importanza, poiché nega radicalmente, con la sua stessa esistenza, la pretesa assolutistica dello Stato etico – è entrato per la prima volta nell’ordinamento italiano, con due eccezioni (che, se non sbaglio, sono rimaste isolate) al principio generale di obbligatorietà erga omnes della legge: quella relativa all’aborto e quella relativa al servizio militare, che allora era servizio militare. Adesso c’è un clima completamente diverso (anche per i pacifisti, come si è ampiamente visto negli ultimi due anni e mezzo) e c’è da scommettere che, se prima o poi si arriverà a una nuova legge sull’aborto, l’obiezione di la coscienza sarà una delle prime cose ad andarsene. Si tratta, peraltro, di un principio giuridico così prezioso e delicato che, se non viene adeguatamente promosso sul piano culturale e continuamente sostenuto sul piano politico, rischia sempre di ridursi a una “riserva indiana” o a una temporanea sala d’attesa in cui confinare i dissidenti. in attesa della “soluzione finale” per rimuoverli.

Tale è dunque l’aborzionismo di oggi, preludio a quello di domani, in cui l’aborto di diritto (o meglio, di diritto costituzionale secondo l’esempio di Macron in Francia) come è ormai quasi universalmente percepito, diventerà al pari di l’eutanasia, un “dovere sociale”, nel contesto di una generale esaltazione nichilistica della morte dell’uomo (una negazione di cui almeno noi cristiani dovremmo riconoscere il marchio!).

Post scriptum. A proposito di cristiani: se questo è lo stato delle cose, credo che sarà sempre più difficile trovare una posizione di coloro che, militando nei partiti più accanitamente abortisti, si aggrappano alla 194 come se fosse un’ancora di salvezza per la propria coscienza. sostenere, come se fosse stato dato l’esempio l’altro giorno, «da cattolico» (e ci tiene a sottolinearlo) il neodeputato europeo del PD Marco Tarquinio, dibattendo sulla questione se riferirsi o meno all’aborto in sede comunicato finale del G7, in modo tale che ho pensato di vergognarmi per lui. (Io non c’entro niente, ma qualcuno doveva farlo).

Leonardo Lugaresi

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