La “svolta geologica” potrebbe cambiare l’architettura – .

La “svolta geologica” potrebbe cambiare l’architettura – .
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Dal prossimo 16 aprile sarà disponibile in edicola e libreria “Tutto quello che non si vede”, il nuovo numero di Urbano, la rivista di urbanistica e architettura nata in occasione dei primi cento anni di attività di Borio Mangiarotti, società di sviluppo immobiliare fondata nel 1920. Al centro del nuovo numero il sottosuolo, l’architettura sotterranea, il rapporto tra geologia e quell’uomo decide di costruire. Come racconta ad Alessandro Benetti l’architetto e ricercatore Galaad Van Daele nell’intervista che pubblichiamo qui in anteprima. Il numero verrà presentato il 15 aprile alle 18.30 all’Ædicola Lambrate (via Conte Rosso, 9, Milano), l’edicola di quartiere di prossima riapertura (per partecipare all’evento registratevi qui).

La fotografia utilizzata in copertina è di Claudia Ferri.

AB: Il tuo profilo è per molti versi tipico di un architetto che non si limita a progettare. Quali sono le tappe più importanti del tuo percorso formativo? Cosa stai facendo oggi?
GVD: Ho fatto alcuni studi letterari e poi ho proseguito nel campo dell’architettura, a Parigi e a Berlino. Queste due aree complementari della mia formazione hanno chiaramente influenzato anche i miei interessi attuali. Dopo gli studi, ho collaborato per alcuni anni con lo studio 51N4E di Bruxelles, e nel frattempo mi sono avvicinato al mondo dell’editoria, in particolare come redattore della rivista indipendente Mendicante. Da qualche anno mi occupo principalmente di ricerca, didattica e scrittura. Infatti non so nemmeno più se definirmi stilista! Dal 2017 lavoro con An Fonteyne e la sua cattedra di Architettura affettiva all’ETH di Zurigo e dal 2020 ho iniziato un dottorato, sempre all’ETH. Sto scrivendo una tesi che prende spunto dalla Grotta Grande, un edificio rupestre costruito a Firenze nel XVI secolo, per indagare i rapporti tra geologia e architettura. Negli ultimi mesi sto approfondendo la mia ricerca in loco, in qualità di visiting Researcher presso il Kunsthistorisches Institut.

AB: Nel tuo sito web spieghi che con le tue recenti ricerche stai esplorando «la possibilità di scrivere una storia dell’architettura che riconosca i vari livelli di presenza geologica negli spazi costruiti». Cosa intendi? Come è nato il tuo interesse per questi argomenti?
Ho cominciato a riflettere su questi temi qualche anno fa in Germania, osservando il colline artificiali realizzate con detriti della seconda guerra mondiale. Oggi sono per lo più ricoperti di verde e vegetazione e molti sono anche ignari della loro origine. Sono oggetti per i quali si pone un chiaro problema di categorizzazione, perché sono natura e cultura allo stesso tempo. Rilievi di questo tipo esistono anche in altre parti del mondo: penso, ad esempio, ai tell mediorientali, insediamenti urbani continuamente costruiti, distrutti e letteralmente ricostruiti sopra le loro macerie. Sono esempi di come l’architettura sia una pratica squisitamente “terrestre” – che quindi nasce dalla terra e può, nel tempo, ritornare alla terra, nella terra. Allo stesso tempo, dimostrano l’impatto geologico che la pratica dell’architettura può avere sulla terra stessa. Stavo già indagando su questi temi quando ho scoperto la Grotta Grande a Firenze: un incontro fortuito ma fondamentale per la direzione che ha preso la mia ricerca.

AB: Come è avvenuto questo incontro? Cos’è la Grande Grotta e perché la consideri un caso di studio così importante per studiare il rapporto tra geologia e architettura?
La Grotta Grande, o Grotta del Buontalenti, fu realizzata nella seconda metà del XVI secolo all’interno del Giardino di Boboli, come manufatto annesso all’acquedotto che scorre tra la sorgente Ginevra e Palazzo Vecchio. Prende il nome in riferimento a Bernardo Buontalenti, l’architetto che ne creò l’attuale configurazione. Si tratta di un’opera piuttosto nota, ma le storie del Rinascimento ne hanno descritto solo gli aspetti più strettamente architettonico-artistici, studiando la composizione della sua facciata, i suoi cicli di affreschi e sequenze di statue, ecc. per approfondire un altro “strato”, altrettanto costitutivo, ovvero le pietre, le concrezioni, le forme geologiche utilizzate dal Buontalenti. Uno degli obiettivi della mia ricerca è scrivere una storia geologica di quest’opera, alternativa alla lettura della storiografia tradizionale e che riconosca le molteplici traiettorie della materia che la costituisce, dalla terra all’architettura e dall’architettura alla terra. Non è un caso che una fondamentale fonte di ispirazione per il mio lavoro siano alcune ricerche degli anni Sessanta che mettevano radicalmente in discussione i canoni comuni e la centralità della ragione nel pensiero e nelle realizzazioni del Rinascimento. Penso soprattutto a L’Antirinascimentoun’opera fondamentale di Eugenio Battisti.

Immagini scattate da Galaad Van Daele durante uno dei suoi viaggi di studio in Italia con gli studenti dell’ETH di Zurigo.

AB: È un tema di ricerca per il quale le competenze di un architetto o di uno storico dell’architettura non sono sufficienti, ma che richiede, al contrario, un approccio necessariamente multidisciplinare.
Sì, ho dovuto approfondire la mia conoscenza di altri ambiti del sapere. La geologia, innanzitutto. Mi sono interessato agli studi sulla stratificazione della materia geologica nel tempo, ad esempio sul valore delle stalattiti come archivio climatico. Mi sono concentrato, in particolare, su ricerche che mettono in luce gli scambi tra viventi e non viventi, spiegando come la materia biogenetica possa trasformarsi in materia minerale e come quest’ultima possa a sua volta essere parassitata dalla vita organica. La Grande Grotta è un esempio straordinario per verificare queste traiettorie incrociate. Confondere i confini tra vivente e non vivente implica anche rivedere le gerarchie che stabiliamo tra questi due poli, solitamente a favore del primo. Gli studi che ho fatto nel campo delle scienze umane ambientali e della letteratura eco-critica – penso, ad esempio, a Materia vibrante di Jane Bennett et al Geontologie di Elizabeth Povinelli – mi hanno aiutato a costruire un quadro teorico che riconosca l’azione della materia inerte. Il mondo minerale si posiziona sempre all’estremità più bassa di una scala che privilegia quello umano e poi quello biologico. Cosa succede se abbandoniamo questo pregiudizio biocentrico? È un bel cambiamento di prospettiva…

AB: …che mi sembra riconoscere anche un importante valore politico.
Sì, la mia ricerca riconosce e vuole partecipare a quella che gli specialisti definiscono svolta geologica (ed: letteralmente, svolta geologica), un cambio di prospettiva dalle conseguenze potenzialmente enormi. Tra le nozioni che formulo nella mia ricerca e che ritengo abbiano implicazioni politiche e sociali c’è quella di “debito geologico”: un concetto che definisco come il debito che ogni opera umana ha nei confronti del pianeta e più specificatamente con la geosfera, se adottiamo una lettura geologica della cultura umana e delle sue espressioni (architettura compresa) che le riconduce alle origini terrestri. Ammettere l’esistenza di un debito geologico significa valutare da una nuova prospettiva la natura fondamentalmente estrattiva di molte attività umane, le loro conseguenze sull’ambiente e i conseguenti squilibri su scala planetaria. Sono domande che ritornano continuamente nella mia tesi e negli articoli accademici e divulgativi che scrivo su questi argomenti. Il mio obiettivo non è tanto puntare il dito contro pratiche dannose, denunciare o condannare questa o quella attività, quanto piuttosto proporre un aggiornamento agli architetti.

AB: Secondo te, quale potrebbe essere l’impatto della svolta geologica, in generale, e delle tue riflessioni, più nello specifico, sul lavoro dell’architetto, sul modo di pensare, progettare e costruire l’architettura?
Oltre alla Grande Grotta, durante i viaggi che ho fatto con i miei studenti dell’ETH mi sono imbattuto in altre architetture e luoghi che dimostrano con forza la labilità dei confini tra geologico e architettonico, tra minerale e biologico. Per restare in Italia penso a Bagni San Filippo, in Toscana, alle cave di Tivoli e a Villa d’Este con le sue fontane. Visitare questi luoghi in sequenza ha permesso a me e loro di visualizzare direttamente le diverse fasi della vita dei materiali – in questo caso il travertino – dall’estrazione al modellamento architettonico fino alla modificazione da parte della vita biologica. Credo che una nuova comprensione dei materiali, della loro natura e della loro origine possa tradursi in una maggiore empatia degli architetti verso il non vivente e in una maggiore consapevolezza della storia della terra a cui partecipano le loro scelte progettuali e materiche. A livello pratico potrebbe significare anche molta maggiore attenzione nella scelta del materiale con cui costruire. Queste ultime non si baserebbero più solo su considerazioni estetiche, tecnologiche e di bilancio, ma anche su valutazioni di carattere più specificatamente geologico. Credo che il lavoro dell’architetto risulterebbe arricchito, più colto e più vicino alle attuali problematiche globali. Si tratta di comprendere che la geologia è architettura e che l’architettura non smette mai di avere vita geologica, nemmeno dopo la sua costruzione.

 
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