Oh, il Canada. La recensione del film di Paul Schrader – .

Il dispositivo per l’intervista inventato da Leonard Fife, il pluripremiato documentarista protagonista di Oh, il Canada, ricorda in realtà quello utilizzato da Errol Morris (tra l’altro esplicitamente citato da Paul Schrader). Un sistema di specchi e teleprompter che permette di creare un contatto visivo tra intervistato e intervistatore. Quindi, in sostanza, una conversazione “faccia a faccia” con lo spettatore. Chiaramente l’intento è quello di eliminare la situazione stressante di avere a che fare con la macchina fotografica, per creare una situazione più immediata, “confessionale”. Ma quando Fife ne parla, tira fuori Freud e la sua particolare posizione di attenzione e di ascolto. Dal livello della confessione sposta l’obiettivo verso la psicoanalisi. La “verità”, se proprio possiamo usare questa parola, non è certo immediata, non è il risultato di una dichiarazione consapevole, lucida, coerente. È qualcosa che deve essere dissotterrato e portato alla luce. Molto spesso nei rapporti con gli altri. Che sia l’analista o il documentarista, non importa. Ma qui non c’è nessuno che possa far emergere la verità. L’ambiguo e mediocre Malcolm, l’ex studente che dirige l’intervista, non ha nemmeno la possibilità di porre una sola domanda tra le venticinque che ha “accuratamente” preparato insieme alla moglie Diana, per ripercorrere la vita e la carriera del Maestro . Fife non gli dà tempo. interrompe bruscamente e prende il controllo della situazione. E anche se arriva la domanda, lui la elude, parla d’altro, devia. Ma per arrivare a cosa?

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L’obiettivo del vecchio regista, ormai sull’orlo della morte per cancro terminale, è quello di fare a pezzi l’immagine fittizia e ampiamente mitizzata che si è creata negli anni. Quella del grande autore “impegnato”, sempre coerente nel suo percorso politico, cinematografico e di vita. Per rivelare finalmente la verità su se stesso, come ultimo dono alla moglie Emma, ​​la donna che lo accompagna da anni, nella vita e nel lavoro, e della cui presenza esige costantemente, al suo confessionale e al suo capezzale. Ed è una verità, quella di Fife, fatta di continue diserzioni, a partire dal grande gesto “iniziale”, la fuga in Canada per evitare la leva e la guerra in Vietnam. Un evento simbolico che racchiude ogni singolo momento della sua vita personale, costellata di abbandoni, responsabilità negate, “tradimenti”.

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Paul Schrader ritorna a Russell Banks, dopo la sua versione di Afflizione, uno dei picchi più straordinari e angoscianti della sua filmografia. E sceglie di trasporre Scontato (I tradimentiinfatti) uno degli ultimi romanzi dello scrittore, morto nel 2023. Ritrova anni dopo un fenomenale Richard Gere Gigolò americano. E, tra le tracce nascoste di Oh, il Canada, ammette il suggerimento di raccontare la storia della vecchiaia di quel personaggio, anche se Leonard Fife non è certamente Julian Kay. Ma nel ripercorrere l’intera vita di un uomo, egli si allontana dalle variazioni bressoniane, per ritornare a quella vertiginosa sperimentazione “biografica” di Mishima, fatto di stratificazioni e sdoppiamenti caleidoscopici. Un film in cui i livelli e le istanze narrative si moltiplicano. In cui la biografia si fonde con l’opera, i colori lasciano il posto al bianco e nero e le pratiche e le forme del cinema si espandono: davvero straordinari i frammenti dei documentari di Fife, dal primo film psichedelico sull’Agente Orange, l’arma usata dagli Stati Uniti in Vietnam , che ricorda le pratiche clandestine degli anni ’60 e ’70, ai resoconti d’assalto sulla caccia alle foche. Fino al documentario sul processo a un prete pedofilo, messo a nudo in un implacabile primo piano, senza tagli…

Come calvinista e regista, Schrader non può credere nell’autorità e nel potere espiatorio del “sacramento” della confessione. Sa che tra le pagine dei racconti e i quaderni dei diari l’inchiostro sbiadisce e bisogna fare i conti con omissioni e incomprensioni. Ecco perché nella versione di Fife, tra la nebbia dei ricordi, della malattia e della droga, le traiettorie della storia si confondono. Il percorso diventa un labirinto di frammenti esplosi avanti e indietro nel tempo, che faticano a ricomporsi in un’unità coerente. Le cose si ripetono, i volti si duplicano (perché Emma e Gloria hanno lo stesso volto di Uma Thurman? È un cortocircuito nella memoria di un vecchio malato o un collegamento tracciato nelle interpretazioni dei segni?). I riflessi deformano la realtà, aprendo altre dimensioni dello spazio-tempo. Come in quella scena straordinaria in cui, nel mezzo di un flashback, il giovane Jacob Elordi cede il posto all’anziano Richard Gere, ma continua ad apparire nello specchio dietro il personaggio. L’occhio inganna e quello che sembra un dato di fatto lascia il posto al dubbio. Il viaggio a Cuba, la diserzione… altro momento fondamentale è quello della visita militare, alla quale sembra rendere omaggio Grande mercoledì di Milius.

Ma soprattutto Oh, il Canada è un film in cui la teoria alimenta, in ogni momento, la vita della materia. In cui la fede nelle immagini non è qualcosa che ha a che fare con la loro evidenza, con la loro capacità di rendere corpi, volti, gesti, azioni, dettagli. Né con il funzionamento della macchina. Il dispositivo resta un’illusione e nemmeno la microcamera nascosta, quella che sventola sul muro con cui Malcolm crede di poter catturare l’attimo finale, riesce a catturare il dettaglio essenziale. Quelle labbra che si muovono e pronunciano le parole segrete. No, la fede nelle immagini è qualcosa che ha a che fare con l’empatia, come ci ha più volte ricordato Schrader. È una questione di umanità, sensibilità, intuizione. E, proprio per questo, Oh Canada è un film spietato e molto tenero sulla vecchiaia, sulla morte temuta e vista e sullo spettro della malattia. Sui rimpianti e sugli errori commessi, anche se necessari. Sul bisogno d’amore e sull’irrefrenabile richiamo della libertà.

La classifica cinematografica di Sentieri Selvaggi

Voto dei lettori


3
(1 votazione)

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