il libro shock sui falsi miti dell’enogastronomia italiana (con qualche nostra riserva) – .

il saggio di Alberto Grandi e Daniele Soffiati – La cucina italiana non esiste (Mondadori) – non può che far discutere

Pizza, carbonara, passata di pomodoro, caffè sospeso e dieta mediterranea sono tutte invenzioni. Il mito della cucina italiana non esiste. Scusate, esiste da poco più di cinquant’anni grazie all’industrializzazione alimentare di massa, al benessere individuale raggiunto, all’abile marketing di rilancio di una presunta tradizione e ai perenni aiuti economici (e culinari!) americani. Inutile, il saggio di Alberto Grandi e Daniele SoffiatiLa cucina italiana non esiste (Mondadori) – può solo far discutere. Grandi, per così dire, professore associato di Storia dell’alimentazione all’Università di Parma, è colui che non molto tempo fa, intervistato da Financial Times, aveva spiegato alcune cose sorprendenti sulla carbonara. Ad esempio, puoi mettere la panna o la cipolla in questo sugo per la pasta perché ce n’è tanta una carbonara “giusta” non esiste. Nessuna fonte scritta menziona la pasta carbonara prima di un articolo su La Stampa del 1950 quando, si scrive, ufficiali americani la cercavano tra le osterie di Roma. Infatti viene citata in un libro di cucina pubblicato nel 1952 a Chicago perché era lì, negli States “Le ricette alla carbonara si moltiplicano senza fondamentalismi” (anche con funghi e vongole, ad esempio) e probabilmente viene consumato già da tempo. E quando nel 1954 gli spaghetti carbonata apparvero come ricetta in un libro italiano, ecco la sorpresa: groviera e uovo rappreso. Apri il paradiso. È ora di un podcast DOI – Denominazione di Origine Inventata – ed ecco il volume di Grandi e Soffiati dove ognuno si spiega. Quasi. A partire dal fatto che i grandi piatti e prodotti della cucina italiana non hanno origini leggendarie che risalgono alla notte dei tempi. C’è molta confusione sulle tavole italiane tra pizze, pomodori e maccheroni.

O meglio: questi prodotti che oggi girano il mondo come simbolo della cucina italiana sono in realtà figli di un complesso e prolungato viavai di italiani negli Stati Uniti. Prendiamo la pizza gloriosa. Se alla fine dell’Ottocento diversi documenti storici attestano che non esisteva una ricetta precisa ma che spesso, oltre ad essere cibo per poveri e disperati, si trattava, come scriveva Carlo Collodi, di un pezzo di pasta lievitata “con una salsa di tutto un po’ sopra (…) pezzetti di pomodoro qua e là che gli danno un aspetto sporco”. Furono poi gli italiani emigrati negli USA tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento a sperimentarla, venderla e farla consumare negli Stati Uniti (e non in Italia, dove si cominciò ad andare a mangiare la pizza negli anni sessanta). qualcosa che assomiglia alla margherita di base che conosciamo oggi (Pizza Margherita in onore dell’omonima regina in visita a Napoli ma che per Grandi e Soffiati è un’altra invenzione di marketing di Casa Savoia). Lo stesso vale per pasta al sugo di pomodoro. Pasta che, se proprio ha un’origine, è il Medio Oriente e il sugo che in America veniva venduto in barattoli per i soldati affamati sul fronte della Guerra Civile, e che i soliti emigranti italiani usavano sistematicamente versandolo sulla pasta quando prima in Italia non sapevano nemmeno cosa fossero (sugo e pasta, te lo spiegano nel libro).

Insomma, la tradizione culinaria italiana è tutta una bufala. Grandi e Soffiati ribadiscono capitolo dopo capitolo il loro incessante martellamento di scoperte storiche sensazionale (istico) utilizzando un confronto più logico che totalmente oggettivo. Confrontando, ad esempio, le abitudini alimentari legate alle possibilità economiche, geografiche e naturali di chi preparava il cibo, smentendo (e questi sono tre punti a loro favore) l’altra bufala del falso concetto di dieta mediterranea che non è altro che una costruzione più ideale che realtà di un team di scienziati americani che soggiornarono e studiarono l’alimentazione nel Sud Italia negli anni ’50. Il mito della cucina italiana, scrivono i due autori, nasce intorno agli anni Settanta del Novecento, costruendo un metodo di sviluppo piccolo e provinciale: “Valorizzazione delle piccole imprese, dei distretti artigiani, del made in Italy e quindi anche delle sedicenti eccellenze enogastronomiche (…) mentre al tempo stesso si rinunciava ad una politica di rilancio del settore basata su ricerca, investimenti, innovazione di processo e nuove fonti energetiche”.

In pratica è il leitmotiv politico dell’approccio storico di Grandi e Soffiati, è la miopia e il provincialismo politico dell’Italia che predilige le peculiarità iperterritoriali del piccolo, rinunciando alla generica ma ricca filosofia della globalizzazione. Naturalmente nulla si crea e tutto si trasforma, ma al di là dell’approccio filosofico critico altamente soggettivo rispetto alle radici di un peculiare spazio storico-geografico (non è un difetto rimaneggiare e riordinare tracce legate al passato), qualche piccolo passo falso nel chopper americanizzato di Grandi e Soffiati c’è. Nella loro furia iconoclasta vollero includere anche il vino coltivato e prodotto in Italia qui veramente dalla notte dei tempi. Innanzitutto ricordando che per uccidere gli insetti parassiti e le malattie della vite furono gli eterni americani a salvare i vigneti italiani dalla scomparsa tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 con i loro rimedi chimico-industriali; utilizzando poi l’espediente retorico di ridicolizzare il vino naturale che, tra gli elogi di Mario Soldati e Luigi Veronelli, sembrava destinato a tornare in auge negli anni Settanta tra le tante invenzioni di marketing del rilancio generale, quando in realtà ciò non avvenne Tutto. Ed è un dato storico inconfutabile perché negli anni ‘80 il mondo del vino subì l’attacco del globalismo industriale del gusto e della critica di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze in termini di interventi artificiali in vigna e in cantina (scandalo del vino al metanolo riguarda proprio la criminale ed esasperata rincorsa dei più piccoli per restare al passo con l’industria, non il contrario come sembra scritto nel libro) da far rizzare i capelli. Il vino naturale oggi non solo non sa più di “diesel” ma è con il recupero dei vitigni che un tempo esistevano nella zona ma che furono spazzati via, sì, da un’industria enogastronomica senza scrupoli industrializzata e globale, che molti viticoltori attuano un recupero di una memoria storica possibile senza intenti provocatori.

 
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