Taranto è pronta a scrivere “il suo” libro – .

Taranto è pronta a scrivere “il suo” libro – .
Taranto è pronta a scrivere “il suo” libro – .

Il coraggioso articolo del regista Mimmo Mazza, sulla quasi inevitabile e sfortunata sorte della siderurgia di Taranto e, di contro, la sua amara riflessione su una città che non è mai stata industriale, nonostante per decenni le sia stata attribuita la narrazione della città più industrializzata del Sud, mi ha ricordato il “paradosso del bugiardo”. Che è il più antico paradosso conosciuto, poiché risale al IV secolo a.C. E fu formulato, ovviamente, da un filosofo greco, Eubulide di Mileto, molto ammirato nell’antichità, tanto che Diogene Laerzio si preoccupò di mettere per iscritto i sette paradossi più noti perché non venissero mai dimenticati. Ma torniamo a Eubulide e alla sua celebre frase: “Quello che dico è falso”.

Questa è, come ci hanno spiegato linguisti e razionalisti, una preposizione autonegante, nel senso che se ciò che afferma è vero, allora sta dicendo qualcosa di vero, mentre afferma di mentire. Se, infatti, la frase è falsa, allora sta mentendo quando dice di mentire, poiché sta dicendo la verità.

Ora, in questi ultimi decenni, i tarantini di “paradossi bugiardi” ne hanno sentiti un’infinità. L’ultimo dei quali (ma solo in ordine cronologico) è che la città, un tempo capitale europea dell’acciaio, cui è negata perfino una stazione ferroviaria decente, con relativi collegamenti con il Nord, sarà proiettata, con il vicino aeroporto di Grottaglie, al centro dei voli spaziali. Magari nel prossimo millennio. Mentre attualmente, quello scalo, per precisa volontà politica, è negato ai voli passeggeri. Che infine, la tutela del lavoro, non può prescindere dalla tutela di quella salute, che abbiamo visto drammaticamente compromessa da esalazioni mefitiche e dal rilascio di sostanze tossiche nell’aria. E, con questi paradossi, potrei continuare. Con la realizzazione delle piscine olimpioniche per i prossimi Giochi del Mediterraneo, dei villaggi sportivi, di efficaci progetti di bonifica del Mar Piccolo e della fascia costiera (anche se in quest’ultimo caso i responsabili sembrano avere una levatura ben superiore), della riqualificazione dei quartieri Tamburi, Paolo VI e Salinella, mentre si torna a parlare di perimetrazione dell’entroterra, dell’agro tarantino insomma, con il cosiddetto Comparto 32, forse avveniristico ma che prevede ulteriori colate di cemento, e l’erosione di ettari di campagna.

Che fare, allora? A questo proposito, mi piace ricordare il “Che fare” di Nikolaj Cernysevskij e la possibilità che il riscatto sociale possa partire dal basso, dalla classe media, dalla classe operaia a cui finalmente si può promettere un lavoro, magari nella bonifica dei danni della siderurgia, dalle ragazze e dai ragazzi che non hanno voluto lasciare la loro città, o che sono tornati dopo studi ed esperienze in altre città. E questi giovani non sono pessimisti. Si uniscono in cooperative, si uniscono e, di fatto, impediscono che il cuore di Taranto si fermi.

Vorrebbero solo punti di riferimento più certi. Una politica meno nervosa e sconclusionata, e, soprattutto, una gestione della cosa pubblica che non sprofondi nel più volgare familismo o nel più sfacciato clientelismo, lasciando fuori dalla porta merito e professionalità. Dunque, che la Feltrinelli, con i suoi libri e i suoi nuovi media audiovisivi, si accomodi e si accomodi nel salotto buono di Taranto; sarà un arricchimento per la città che ha visto chiudere, con malinconia, una a una, le sue librerie storiche. Leone, Filippi, Nicola Mandese e tante altre, che, presi come siamo dalle vicissitudini dell’acciaio, non abbiamo pianto abbastanza come, invece, avremmo voluto. E basta, per una volta, con i commenti sprezzanti su un’ipotetica città turistica, o sulla ricchezza delle sue coltivazioni marine. Perché non considerare che anche questi settori sono motori, insieme a un’industria che non semina più morti e invalidi. E infine, non lasciamo cadere nel vuoto la proposta degli illustri Tarantini, Francesco D’Andria, Emanuele Greco, Grazia Semeraro, ecc., di provare a recuperare per la pubblica utilità quanto si troverà dei resti dell’anfiteatro romano e perfino di quello greco, senza grandi sconvolgimenti urbanistici e improbabili demolizioni. A questo proposito, abbiamo finora ascoltato una fastidiosa politica di “whataboutism”, che, quando si parla dell’anfiteatro, si comincia a snocciolare altre presunte priorità, come il parco di Collepasso, altre mura antiche o altre improbabili testimonianze archeologiche.

Infine, ci pare che dopo la stagione dei comprimari, anche le associazioni di categoria, la Camera di Commercio, la Confcommercio, e perfino l’Associazione degli industriali (per molti anni asserviti al colosso siderurgico), siano governate in modo ammirevole e, per giunta, con nuove assonanze con il territorio e i suoi progetti. Sfogliamo, quindi, nuovi libri, ma non dimentichiamo di scriverne uno nuovo e straordinario.

 
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