È il 4 maggio. È il giorno di Torino. È la storia del calcio. Di una leggenda. Di una tragedia. Di un prima, di un dopo. Difficile, impossibile far capire alle nuove generazioni cosa rappresentasse quella squadra, le celebrazioni fanno parte di un copione scritto, soprattutto negli ultimi anni, da chi quell’epoca non l’ha vissuta in prima persona, nel proprio cuore, osservando i film, sfogliando album di fotografie, annusando l’odore dell’olio canforato negli spogliatoi del Philadelphia, teatro meraviglioso tradito e vilipeso e poi demolito, oltre ad ascoltare la storia vera di quei ragazzi, riassunta nella memoria dei sopravvissuti, dei parenti, dei amici anche, direi soprattutto, del
avversari che in quelle morti riscoprirono il senso della vita e il rispetto per gli altri. E così riascoltiamo l’annuncio della formazione, rivediamo quei capelli impomatati, le mascelle d’avorio, veri atleti di un tempo retorico, molto simile a quello contemporaneo dove tutti vogliono partecipare alla rievocazione e poi mettere Di nuovo in soffitta, fino al prossimo maggio, le parole, i volti e le espressioni dell’occasione. Torino va sempre ricordata e onorata, Orfeo Pianelli, dopo la messa officiata nella Basilica di Superga, rivolgendosi al segretario generale Beppe Bonetto, ha chiesto: «E adesso cosa comportano i festeggiamenti?». Quindi per il presidente scudetto quello fu un giorno di festa e non di doloroso ricordo ma forse aveva ragione Pianelli, il Torino dovrebbe
scaldare le tiepide teste di chi fatica a studiare la storia del calcio e si appassiona al quattro-tre, seguendo la moda dei nuovi spacciatori. Che sia una festa, allora, con bandiere e cori e canti riservati a quei calciatori, a quei giornalisti che hanno concluso la loro esistenza nella nebbia di maggio.
E domani non sarà mai un altro giorno.
