Estate ’44, Cremona rifugio per sfollati slavi delle opposte fazioni – .

Podhum, Jelenje, Castua, piccoli villaggi croati molto lontani dalla nostra immaginazione eppure unisciti alla nostra storia per una trama sviluppato durante la seconda guerra mondiale; una storia nata in seguito all’occupazione tedesca della Jugoslavia, iniziata il 6 aprile 1941, e alla conseguente divisione del Paese in aree di influenza diretta con l’alleato italiano. Un confine, quello orientale, molto complesso e travagliato dove le ragioni e i torti si sono persi in un tempo indefinito.

La città di Fiume assunse il ruolo di capoluogo della regione del Carnaro, territorio che dalla costa si incuneava nell’entroterra. Le località citate erano situate a poco più di dieci chilometri dal centro principale; l’occupazione militare italiana, finalizzata a compiere un’azione di “italianizzazione forzata”suscitò presto una forte reazione da parte delle popolazioni locali.
Per contrastare l’azione dei ribelli, le autorità italiane hanno attuato a politica di repressione piuttosto drastico e segnato da numerosi episodi di ritorsione contro i civili. Tra queste, infatti, bisogna ricordare la fucilazione, avvenuta il 12 luglio 1942, di oltre un centinaio di residenti a Podhum e Jelenje come ritorsione per comportamenti tenuti dai partigiani slavi ai danni della rappresentanza italiana. Per sradicare la lotta condotta dalla gente del posto, siamo arrivati svuotare interi villaggi spostando i residenti verso campi di internamento e varie località italiane. Inoltre si mossero anche cittadini locali che, avendo collaborato con le forze di occupazione, temevano ritorsioni da parte dei partigiani locali.

Nel Territorio cremonese sono arrivati, separatamente, entrambi i gruppi colpiti dall’allontanamento forzato dai territori slavi; A I cosiddetti “collaborazionisti” furono quindi ospitati a Cremonamentre a Cingia de’ Botti i “parenti dei ribelli” furono trasferiti.

Dall’esame del materiale depositato presso l’Archivio di Stato e presso il Comune di Cingia, visionato nel 2007, si possono delineare alcuni dettagli relativi a quella dolorosa situazione.

La scelta della prefettura di inviare gli internati provenienti dal confine orientale nella cittadina di Cingia de’ Botti rispondeva ad un criterio di pratica organizzativa; Là presenza della caserma dell’Esercito ed un edificio in grado di ospitare in tempi brevi un numero sufficiente di persone, erano i requisiti essenziali per portare a termine l’operazione. Nella tarda primavera del 1942 lOspizio Germani continuò ad operare secondo la consueta vocazione di ricovero per mendicanti secondo quanto disposto dal testamento del fondatore. Durante la guerra, però, la sua accoglienza cambierà radicalmente e finirà per ospitare sfollati provenienti da diverse città italiane (Messina-Livorno-Milano) e dal piccolo comune di Vallerotonda (Frosinone).
Nel gennaio 1943 la prefettura interpellò il Comune per verificare la possibilità di collocare nell’ospizio cinquanta minori urgentemente bisognosi di ricovero; il sindaco ha evidenziato l’impossibilità di dar seguito a tale richiesta vista la concomitante presenza di circa ottanta internati slavi.

L’arrivo di i primi internati slavi a Cingia de’ Botti avvennero verso la seconda metà di giugno 1942; il primo contingente venne collocato in un’ala dell’ospedale Germani a partire dal 28 giugno. Le schede anagrafiche predisposte all’ingresso nel Comune evidenziavano i luoghi di provenienza dei diversi gruppi familiari accolti nel rifugio; tutti i soggetti provenivano da Podhum e Jelenje confermando che le operazioni di trasferimento da quelle due comunità erano già iniziate ancor prima della strage del 12 luglio.

Le loro età e professioni erano molto varie; alcuni si mostravano, per l’epoca, già in età avanzata mentre altri, soprattutto tra le donne, con un profilo demografico più recente. L’occupazione prevalente era la professione di falegname o operaio generico; altri invece provenivano settore agricolo. Nonostante le limitazioni a cui erano sottoposti rispetto anche al minimo spostamento, era previsto che trovassero impiego anche nelle aziende locali; la carenza di manodoperarichiamati in gran parte alle armi, rendevano preziosa la presenza di individui disposti ad impiegarsi in lavori che garantissero un bene economico assai prezioso.
Un elenco dettagliato relativo alla collocazione degli uomini nelle numerose aziende agricole della zona è conservato nell’archivio comunale di Cingia de’ Botti; le donne, invece, si offrirono di lavorare per alcune famiglie locali.

Il loro compenso, derivante dalla somma ricevuta a titolo di sussidio statale e dalle retribuzioni di lavoro, non dovrebbe in ogni caso superare l’indennità prevista per i lavoratori locali.
Al primo gruppo di internati si aggiunsero poi altri due che giunsero rispettivamente il ventotto luglio e l’otto agosto; con i nuovi arrivi, stimati in una cinquantina di unità, due sezioni della struttura furono così interamente completate destinato a soddisfare gli alloggi richiesti dalla prefettura cremonese.
Dopo la sparatoria avvenuta all’inizio di luglio, l’intera popolazione delle due località, stimata in circa 900 unità, fu trasferita in massa e destinata, infine, a essere distribuita in vari centri della penisola. Per quanto riguarda la presenza di internati slavi nel comune cremonese, si può affermare, infatti, che la loro convivenza con la popolazione locale non ha mai dato luogo, almeno secondo il materiale documentario visionato, ad alcun particolare attrito. Come avvenne anche in altre località del cremonese, dove erano stati collocati internati di altre nazionalità, la gente del posto spesso mostrava simpatia e rispetto nei confronti di individui in evidente difficoltà e sottoposti a privazioni di varia natura. In vari contesti più articolati e complessi furono i rapporti con le popolazioni dislocate lungo la linea Gustav (Frosinone) e poi trasferite in massa al nord per ragioni di sicurezza.

Lo stesso sindaco di Cingia si prodigò in numerose situazioni per agevolare le richieste avanzate dagli internati rispetto alle più svariate situazioni dell’agire quotidiano; l’azione pragmatica di un amministratore fu preziosa per affrontare e dipanare le distorsioni e le rigidità di una burocrazia tipica del periodo bellico.
Agli inizi di settembre aveva inoltrato un’interrogazione alla Questura di Cremona per verificare l’idoneità degli internati ad essere impiegati in attività situate fuori del loro territorio ma comunque rientranti nelle comunità soggette alla giurisdizione dei carabinieri locali. Un contadino di Motta Baluffi, proprietario di una grande azienda agricola, era infatti interessato a poter attingere manodopera agli internati della Cingia; per facilitare il processo era disposto a offrire loro anche un alloggio o, se non fattibile per impedimenti normativi, a trasferirli quotidianamente a sue spese tra le due località.

Per un detenuto che, a seguito delle varie vicissitudini avvenute, aveva smarrito il libretto della pensione, il sindaco si era attivato presso la prefettura di Fiume affinché gli fosse consegnato un duplicato idoneo a consentirgli di percepire l’assegno previsto; a due internati, che intendevano far visita ad una parente che aveva partorito all’ospedale di Cremona, il sindaco riuscì ad accelerare la concessione di un permesso straordinario per lasciare il Paese.

L’intervento più notevole predisposto dall’amministratore di Cingia ha riguardato la triste situazione in cui si trovavano i quindici orfani, senza parenti diretti, ospitati presso l’ospizio; Giunti durante la stagione estiva, si ritrovarono, con l’imminenza dell’inverno, ancora vestiti con abiti non adeguati a resistere ai rigori della stagione imminente. La sua richiesta, inoltrata alla prefettura, prevedeva un rimborso di 1.500 lire, poi erogate dal Viminale, per garantire ai minori l’abbigliamento minimo necessario per sopravvivere al periodo invernale. Per gli stessi bambini in età scolare si è adoperato per garantirlo potrebbero frequentare le scuole locali al fine di acquisire un’adeguata conoscenza della lingua italiana.

Verso metà luglio il Ministero dell’Interno ha informato la Prefettura che circa mille persone residenti nella zona del Carnaro hanno abbandonato le proprie abitazioni rifugiandosi altrove e chiedendo protezione alle autorità italiane. La situazione nei territori interni era ulteriormente peggiorata e per coloro che avevano collaborato con le forze italiane o erano rimasti lontani dai gruppi “ribelli” si percepiva un clima di forte preoccupazione.
federazione fascista di Lubiana si era quindi adoperato per facilitare la fuga sicura di quegli elementi che si erano distinti come informatori o sostenitori delle truppe occupanti.
La prefettura del Carnaro ha quindi disposto l’allontanamento, in piccoli gruppi, dei cosiddetti “proteggendi” verso varie località italiane; nei loro confronti si invitavano le autorità competenti a predisporre un comodo servizio di accoglienza sia per il vitto che per l’alloggio, avvalendosi anche della collaborazione del partito fascista. Quest’ultimo doveva prestarsi a sviluppare vicinanza e assistenza morale coniugate con un’adeguata opera di propaganda politica. Le disposizioni relative alla censura e alle pratiche di sorveglianza dovevano ovviamente essere attuate in modi meno precisi rispetto agli internamenti congiunti dei ribelli; la loro corrispondenza è stata oggetto di sporadici controlli, salvo provvedimenti volti all’emersione di eventuali condotte sospette.

IL sei famiglie sono arrivate a Cremona il 17 luglio (domenica) provenivano dal paese di Castua, località situata a una decina di chilometri da Fiume; presso l’edificio si trovava l’alloggio dei ventiquattro sfollati, tra cui diversi minoriAsilo nido Broggi Simoni di via Cadore. Per mangiare ci siamo invece rivolti a Il ristorante di Giuseppina Capellini in via Sicardo, ciascun capofamiglia aveva una indennità giornaliera di otto lire mentre gli altri componenti adulti della famiglia ne avevano quattro. Gli uomini ospitati a Cremona hanno espresso contrarietà ad essere impiegati in lavori agricoli, preferendo trovare impiego in attività industriali.

Verso la fine di ottobre tutte e sei le famiglie hanno chiesto di poter ritornare nei rispettivi luoghi di origine; secondo loro la situazione si era normalizzata e lo stato di potenziale pericolo che li aveva indotti ad evacuare era in gran parte scomparso. La richiesta non ha però trovato riscontro positivo in quanto la prefettura di Fiume ha sottolineato che il ritorno degli sfollati non appariva opportuno e che…”molti villaggi dove vivevano i suddetti sono stati distrutti durante le operazioni di polizia militare”.
Le informazioni pervenute dal capoluogo del Carnaro testimoniano eloquentemente i metodi utilizzati dai militari italiani per contrastare la guerriglia condotta dalle popolazioni locali:affollamento di residenti e distruzione di città ritenute conniventi con il nemico. Un’operazione volta a creare terra bruciata attorno ai ribelli, togliendo ogni tipo di sostegno spesso offerto dalle loro comunità. Finalmente, nella primavera del ’43 due delle famiglie sfollate a Cremona riuscirono a ritornare presso i parenti ivi residenti.

Fabrizio Superti

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