Dalle Marche alla terra dei faraoni, poi l’arrivo nei campi del Lodigiano – .

È in questo divario tra indolenza e reazione che si trova la culla della creatività. Alessio Ramazzotti, originario di Osimo, oggi chef del ristorante Sesmones di Cornegliano Laudense, è un uomo fatto così: se vuole dimostra di essere molto bravo in cucina, un innovatore poliedrico, ma non gli interessa essere riconosciuto. Se gli fa un complimento, ha già finito. Corpulento e assonnato. Spaccone e timido. Veloce e gentile. Diretto e talvolta ricco di giri di parole.

La nostra sarà una chiacchierata molto lenta: Alessio ha bisogno di tempo per aprirsi, ma un attimo dopo ti dona il cuore. Partito dalle Marche, arrivò nel lodigiano per amore, attraverso l’Egitto.

Ma cosa ci facevi in ​​Egitto?

“Il cuoco. Ho lavorato nel settore del turismo, in alberghi di rinomate località balneari: Marsa Alam, Hurghada, Sharm el Sheikh, strutture alberghiere per una media di ottocento vacanzieri”.

Bello e difficile, suppongo.

«Complicato, soprattutto. Lavoriamo 24 ore al giorno. La cucina è divisa in settori. Lo staff lavora su cicli temporali molto rigidi, inoltre è difficile creare senso di squadra. Poi c’è da dire che nei ristoranti i turisti fanno peggio, e a noi italiani dispiace soprattutto dirlo: ci aspettiamo cibo nostrano, ma non sempre è possibile averlo, e in Egitto le materie prime vengono dalla vostra terra. paese, se li vuoi da fuori paghi un salasso”.

Dall’Egitto a una cittadina del lodigiano, perché?

“Per amore. Mentre ero in Egitto ho conosciuto Elisabetta. Per cinque lunghi anni ci siamo scambiati messaggi via telefono. Poi, per motivi familiari, sono dovuto tornare in Italia, e ho lavorato in un albergo a Pesaro. Finalmente ci siamo rincontrati con Elisabetta e ho fatto la mia scelta di vita: abbiamo messo su famiglia. C’era un posto che cercava uno chef e mi sono offerto”.

Era il periodo in cui lavoravi a Coldana. Perché quell’esperienza è finita?

«Ho lavorato lì per undici anni e ho tanti bei ricordi. Ma l’amore finisce, vuoi che sia impossibile finire anche un rapporto di lavoro?».

E da quanto tempo sei qui a Sesmones?

«Dalla primavera del 2022: il direttore, Davide Tarenzi, mi ha inizialmente chiamato per una sostituzione. Sono ancora qui”.

Cosa ti piace del lodigiano?

«Devo ancora conoscerlo, mi credi? Questo è un lavoro che ti prende totalmente: sai che, fino ad ora, non ho mai conosciuto i luoghi in cui ho vissuto mentre lavoravo? Ho due figli e non posso partecipare alla loro vita: non sono lì per le vacanze, nel mio giorno libero loro sono a scuola. Ma se ami questo lavoro, ne accetti anche le conseguenze”.

Perché hai scelto di fare lo chef?

«Il cuoco, per favore. Mi è sempre piaciuto mangiare. Fin da quando ero bambino. Ti racconto questa immagine: l’ultima domenica di Carnevale, avevo 13 anni, e siamo andati al parco a festeggiare, mia nonna ha steso una coperta sul prato, e ha tirato fuori le zeppole da un sacchetto: in quel momento ho deciso che avrei fatto la scuola alberghiera e che avrei fatto questo lavoro”.

Chissà che buona cucina c’è nelle Marche!

“Confermo. Ma in genere mangio di tutto, tranne il sugo con le creste di gallo o il duodeno, piatto tipico delle zone marchigiane”.

Qui il risotto va di moda, hai avuto difficoltà ad adattarti a questa cucina?

«Il mio risotto in effetti presenta delle differenze rispetto a quello tradizionale».

«Non lo faccio abbrustolire con la cipolla, ma con brodo vegetale, al quale aggiungo un sapore acido, con qualche spruzzata di vino acetato, mentre alla fine aggiungo la cipolla; poi aggiungo la soia, cioè creo un fattore umami, e poi burro, olio e parmigiano: mi piace che la crema risalti, che non sia secca. È il mio riso. Punto. Ma l’ultima parola spetta al cliente”.

Mi sembra davvero bello, con le parole.

«Se vuoi un’alternativa, visto che il mio menù è basato sulla stagionalità, posso proporti anche un risotto agli asparagi. Non fare complimenti”.

Avendo lavorato all’estero, la tua cucina è contaminata da esperienze diverse?

«Ma oggigiorno tutto è contaminato, con Instagram, con gli altri social network, con i programmi televisivi. Le esperienze sono importanti: ancor più che all’estero, ho avuto l’opportunità di fare il secondo in un locale che all’epoca non era ancora stellato, ma oggi lo era, il ristorante Andreina dello chef Enrico Recanati, a Loreto: ho imparato molto Là “”.

Mi sembra di percepire una tua certa riluttanza verso i social, sbaglio?

«Tutti sono liberi. Non pubblico mai foto di me stesso. Sono della vecchia scuola. Ho avuto l’opportunità di lavorare con lo chef Giancarlo Visani e imparare da lui: conta il lavoro, lasciare andare le mani. Quindi, se vuoi, mi vedo vecchio da un lato, ma giovane dall’altro: mi piace fare piatti per divertimento, inventare dal nulla”.

Allora, aiutami a trovare un aggettivo per la tua cucina?

Spiegatemi il significato, per favore.

«Ad esempio una cassoeula scomposta ricoperta con un involtino di verza, e invece potremmo sostituire queste con alghe uramaki, completando il tutto con polenta grigliata».

Fondamentalmente, fuori dal giapponese e dentro i sapori classici?

“Esattamente. A volte utilizzo il tonno essiccato, che viene dal Giappone, e che viene utilizzato anche per fare il brodo per il ramen, servito con i noodles, realizzati con una crema al burro e polvere di limone”.

Un’altra contaminazione, già che ci siamo?

«Tacos fatti con polenta, con dentro carne salada o lingua di manzo e cicoria».

«È vero: ci sono prodotti del passato, che oggi quasi non vengono più realizzati, ma all’interno di una nuova proposta. D’altronde cucinare è sempre una sfida! Oggi il cliente vuole innovazioni anche in termini di impiattamento, e nei confronti di un locale che, nel suo insieme, si rivela accogliente anche nei dettagli”.

«Sì: se ti trattano male, anche dove mangi bene, alla fine non torni una seconda volta».

Abbiamo accennato al primo, passiamo al secondo?

«Se vuoi limitarti alla carne, va bene una guancia di manzo? Lo faccio brasare bene e a fine cottura aggiungo un estratto di barbabietola rossa, accompagnato da barbabietole cotte in agrodolce e gel di mandarino cinese.

E se volessi, invece, del pesce?

«Con me giochi in casa. Ma attenzione, preferisco quelli lacustri o fluviali. Perché? È una sfida, quasi non se la pongono più, e a me piace riproporre i sapori di un tempo, sempre rivisitati in chiave moderna. Poi se mi chiedi una spigola non ci vuole niente per farlo. Con una carpa, credimi, è diverso.”

«Credo che risalga alla mia giovinezza nelle Marche: andai a trovare un amico, che aveva una casa sul lago, e sua madre per pranzo ci preparò una carpa, che era buonissima. Oggi chi lo fa più?”.

Altri pesci che metti nei tuoi piatti?

«L’estate scorsa ho cucinato spesso un piatto a base di coregone. Adesso, però, preferisco lo storione, o il pessino, piccoli pesci d’acqua dolce. Oppure, molto conosciuta, la trota”.

Lo sapete che agli chef propongo sempre un gioco?

«Chiamami cuoco, se devi. Che gioco, dimmi.”

Invece di fare il cuoco ti faccio fare il commesso: vieni a mangiare nel lodigiano perché…?

«Le ragioni potrebbero essere tante. Direi che i produttori hanno un ruolo importante. Qui si mangiano cose genuine che non si trovano altrove. Vorrei proporre una cucina di prodotti locali. Io ad esempio uso tantissimo il pannerone”.

«Il Pannerone e pepe affumicato con legno di melo, da cui si ricava un olio che ha sentore di mandorla, mescolato con latte di mandorla è un ottimo piatto: tengo conto però che potrebbe non piacervi. Offro idee e competenze, ma è il cliente che, come sempre, ha diritto all’ultima parola”.

 
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