La leggerezza che fa bene all’anima – .

L’ultima volta che Alessandro Baricco venne a Taranto era il 2012. È stato il primo dettaglio che lo scrittore torinese ha ricordato, ospite sul palco del Map Festival, ieri sera nella pineta del Parco Cimino. Quasi “una vita fa”. Quando stava “bene, coerente con la vita che conduceva in quel momento non si fermava un attimo” affermava, con un breve riferimento nostalgico, al passato. Un passato di cui non si pente ma che si colloca in quella parte della vita tra la giovinezza e la maturità. Così Alessandro Baricco, lo scrittore, drammaturgo e sceneggiatore contemporaneo amato e letto in tutto il mondo per grandi successi come “Oceano Mare”, “Novecento”, “Seta” O “I Barbari”, una domanda dopo l’altra viene raccontata al pubblico tarantino e al giornalista Oscar Iarussi. Racconta la sua vita, un’opera d’arte che ha riempito di lettere, suoni, immagini ed emozioni. E ringrazia, con grande riconoscenza, il pubblico che lo ha accompagnato in questo sorprendente viaggio.

Tra musica e scrittura, il Novecento di Baricco

Baricco non ama particolarmente parlare di sé perché lo considera imbarazzante. Lo fa solo se è “costretto” dice, sorridendo, dopo qualche domanda, con la consueta ironia con cui riesce a conversare su argomenti di un certo calibro, senza mai annoiare l’interlocutore. Iarussi ricorda al pubblico che “Novecento”, quest’anno oltre a compiere trent’anni, è l’opera mondiale da cui sono nati centinaia di allestimenti teatrali. “È un libro – spiega Baricco – che ho scritto in tre settimane per due amici, che considero geniale. Ho proposto, qua e là, di fare un monologo anche se all’epoca questo tipo di spettacolo non esisteva. Poi è andato via da solo. Racconta di esperienze in cui molte persone si riconoscono: dal desiderio di tendere e comprendere l’infinito, all’insofferenza per i limiti, al desiderio di seguire l’istinto e allo stesso tempo alla paura di buttarsi in determinate situazioni. Mi sono reso conto che la vita umana è continuamente in bilico tra paura e ragione. Non importa da dove vieni o di che nazionalità sei. Novecento, credo, mi ha dato il mondo”.

Inoltre nel Novecento c’è musica e musicalità. Dal protagonista che è un trombettista, alle proposizioni ritmate e ai dialoghi, come tutta la produzione letteraria di Baricco che lo distingue dalle altre penne contemporanee. Lo scrittore torinese afferma di aver sempre amato la musica, ma di non avere “talento nel riprodurla” e lo trasferisce nelle sue parole: “Quando ho iniziato a lavorare alla Gazzetta del Popolo, a Torino, tra affari esteri e cultura ho scelto il quest’ultimo, perché volevo fare il critico musicale. Non conoscevo tutta la teoria e tanto meno la pratica, ascoltavo musica classica fin da quando ero bambino. Così ho iniziato a studiare, ogni giorno, per stare al passo. Dieci anni dopo me ne sono andato”.

Poi Iarussi gli chiede quale sia il rapporto con la scrittura, Baricco spiega che non capisce chi “ha riti e ritmi rigidi” e che scriveva in ogni momento e in ogni luogo, come in questi giorni a Taranto. “Niente di ufficiale” sottolinea perché si tratta di “una strana piccola storia della musica classica”. Poi, prosegue riguardo al mestiere dello scrittore: “Non ho abitudini particolari perché mi darebbe fastidio scrivere, sempre, ad una certa ora e fare le cose in un certo modo. Gli esseri umani hanno questa cosa meravigliosa che hanno la sensazione di scrivere al momento giusto. Però quando sei un professionista non è proprio così, anche se le idee arrivano ovunque, anche quando sei sull’autobus. L’ispirazione è come una forza, una corrente, che ti trascina e ti travolge. Quando, nel libro, ti trovi al bivio di un passaggio difficile, cerchi giorni di assoluta tranquillità, solitudine e immersione forzata. Scrivere è un lavoro”.

Gli scrittori sono “strani”. Torino ne era piena quando iniziò. Così Iarussi gli ricorda gli anni delle condutture televisive, tra “Pickwick e “L’amore è un dardo”, e dei momenti in cui, spesso negli anni, Baricco è stato oggetto di critiche. Ecco, lo scrittore risponde di essersi sempre sentito fuori posto rispetto a un gruppo di società che preferisce un certo tipo di educazione: “Ho sofferto di tutto – continua Baricco – dalla casa editrice alla tv. Volevo solo restare a casa e scrivere. Durante la mia permanenza in Rai, a Roma, invece di divertirmi la sera tornavo a casa presto per dedicarmi alla scrittura. Non l’ho fatto per ossessione, piuttosto era come se dovessi farmi una doccia per tornare nel mio habitat, nel mio posto nel mondo. Al Premio Strega ho indossato la giacca rossa perché non ero in pace con il mondo. Adesso lo sono e ho finalmente capito che il mio posto nel mondo è ovunque, insieme a mia moglie”. Lui sorride e volge lo sguardo, innamorato, a Gloria Campaner che ricambia dolcemente. Lei, insieme a Pietro Romano, è il direttore artistico del Map Festival.

Lo straordinario talento di essere incredibilmente leggero

Quando Baricco esordì, il critico letterario del Corriere della Sera, Geno Pampaloni, lo definì “il Folletto delle lettere”. Così Iarussi mette in luce la personalità dello scrittore torinese, da cui deriva la penna leggera, lo stile essenziale nel raccontare storie particolari, nelle trame e nelle descrizioni dei personaggi. Baricco ha preso questa stessa leggerezza dalle opere di JD Salinger, decidendo di trasmetterla agli studenti della Scuola Holden, la struttura da lui fondata trent’anni fa dove si studia la scrittura creativa e “si impara a camminare, a cantare e a trovare il proprio posto nella vita”. mondo.”

Con la stesura del saggio “I barbari”, tuttavia Baricco è riuscito ad andare oltre il concetto di leggerezza tessendo, secondo Iarussi, “l’elogio della superficialità”. “Credo che Calvino – sorride lo scrittore – quando ha individuato quelle sei parole chiave, l’abbia preso alla leggera. Gli sarò sempre grato per quella lezione di vita e per la citazione di Valéry sul fatto che devi essere leggero come un uccello e non come una piuma. La leggerezza per me è un valore istintivo e se abbinati alla pesantezza credo che siano un connubio straordinario. Un binomio che, del resto, mi ha accompagnato per tutta la vita. Ero così.”

Quando Baricco si rese conto che la civiltà digitale stava virando verso altri valori, scrisse il saggio “Il gioco” riflettendo sull’importanza della superficialità, del modo in cui questa società reagisce all’essere costantemente connessi. Ecco perché è necessario sapere “un po’ di tutto” per stare al passo con i tempi. Baricco riuscì così a rivalutare il concetto di superficialità, che fino al ‘900 aveva un’accezione negativa. “Ho sempre pensato che, al contrario, fosse la profondità ad avere dei difetti. Andavo solo da persone che conoscevano una piccola parte di qualcosa, nel profondo. Ma a cosa serve? Che conoscenza è questa? Penso che troppa profondità sia pericolosa. Credo anche che l’amore profondo sia pericoloso. Immagina di essere inghiottito da un amore così profondo, come se fosse una grotta. E va giù, ancora più giù. Andiamo, il sistema profondo nella vita non esiste.

Nell’esporre quest’ultimo concetto, Baricco mima con le mani qualcosa che si perde nel profondo e cade nell’oblio. Così riesce a dare un senso a quello che ha appena detto. Da quando ha iniziato l’intervista non c’è stata una parola che non abbia preso forma nella mente del pubblico, o che non sia stata raccontata con tutta l’intensità con cui è solito creare concetti. Per tutta la durata dell’intervista mai un cenno alla malattia di cui soffre. Non è difficile indovinarlo e c’è da sperare che lo stia vivendo con la leggerezza di cui ha parlato finora.

Alla fine, con grande umiltà Baricco chiede scusa per la lezione di vita appena impartita, sui valori. Chiude il discorso sulla leggerezza, sulla società attuale, con una frase che sembra estratta da uno dei suoi libri. Baricco parla esattamente come scrive. E non ci sono parole per descrivere, in modo sincero e completo, la magia con cui riesce a farlo. Resta un mistero. Il suo mistero. “A un certo punto – conclude – ci siamo resi conto che spostare la meraviglia del senso sulla crosta del mondo e non seppellirla sotto, non nasconderla, era il gesto che ci avrebbe reso più vivi. Più felice”.

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