«Io, ingannata e umiliata perché volevo abortire» – .

«Io, ingannata e umiliata perché volevo abortire» – .
«Io, ingannata e umiliata perché volevo abortire» – .

Linda Feki, 33 anni, in arte LNDFK, è una musicista di padre marocchino che vive a Napoli. Tre mesi fa ha deciso di abortire. E da quel momento è iniziato per lei un incubo, che ha raccontato sui social e oggi in un’intervista Corriere della Sera. «Mi presento all’ospedale San Paolo. Il ginecologo mi visita, non mi chiede nemmeno come mi chiamavo, ma se avevo un compagno e che lavoro faceva. E poi il suo conto non mi tornava.” Oppure: «Dice che sono alla decima settimana. E aggiunge che se fossimo arrivati ​​a questo punto voleva dire che in realtà volevamo tenere il bambino”. Ma non era vero: «No, ero convinto della mia scelta. Ed ero all’ottava settimana. Lo sapevo per certo perché il mio partner vive in un’altra città.

La decima settimana

A quel punto, racconta, il ginecologo del San Paolo «allude che forse ce n’è un altro, dice che le macchine non sbagliano, e si rifiuta di firmare l’ecografia». Chiede un altro parere: «Consulto un ginecologo privato, che mi spiega che erano stati impostati parametri sbagliati. Ha confermato che ero in terza media, come dicono anche alla Caldarelli, dove decido di andare”. Qui però inizia un altro calvario: «Intanto le visite sono possibili solo il mercoledì perché negli altri giorni ci sono solo obiettori. Il ginecologo decide per l’intervento, anche se c’erano le condizioni per l’uso del farmaco, mi hanno messo in una stanza con altre due donne proprio di fronte alle partorienti. Né il mio partner né gli altri sono autorizzati ad accedere. Eppure avere una persona accanto sarebbe importante. Non vengono forniti antidolorifici e ancora oggi mi chiedo se questa non fosse una sorta di punizione”.

Le altre difficoltà

Poi le altre difficoltà: «In bagno la porta non si chiudeva del tutto e non c’era la carta. Dovevamo aiutarci a vicenda. Quando mi hanno portato in barella sono passato proprio davanti alla sala d’attesa dove c’erano la mia compagna, mia madre e tante altre persone. Può sembrare un dettaglio insignificante, ma ho trovato che fosse una violazione della mia privacy, come se ti facessero passare “un corridoio della vergogna”. Quando ho chiesto a un’infermiera di scollegare la mia flebo, ha detto di no perché era un’obiettore. Alla fine dell’operazione mi hanno detto che la prossima volta avrei dovuto pensarci bene e stare più attento”. Feki dice che l’esperienza è stata brutale. Anche se salva qualcuno: «L’assistente sociale è stata molto gentile ed empatica. E l’anestesista è stata l’unica figura che ha dimostrato professionalità, rispetto e sostegno, in quei momenti è stato di grande conforto. Per il resto, niente. Anche due giorni dopo, quando sono tornato per un controllo, sono stato io a chiedere la profilassi anti-D perché avevo sangue RH negativo, perché mi ero informato. Ho rischiato di avere complicazioni con la mia prossima gravidanza”.

La storia sui social

Raccontando tutto sui social, racconta: «Ho sentito il bisogno di denunciare le ingiustizie che ho subito per dare voce anche a quella di tutte le altre donne che, come me, sono state ostacolate e umiliate per aver deciso di esercitare la loro Giusto “. E le scrive «molte donne mi hanno raccontato le loro esperienze, troppo spesso traumatiche. C’è chi ha riportato anche esperienze più positive delle mie, soprattutto in regioni come Lombardia o Toscana, e sto lavorando a una lista di ospedali consigliati in base a tutte le esperienze che mi sono state inviate. Ho ricevuto anche molti messaggi di odio, in cui venivo insultato e chiamato assassino”. Ora, dice, «sto facendo le mie valutazioni, avvocati, associazioni e medici legali si sono offerti di assistermi. Se necessario, offrirò la mia testimonianza e il mio impegno. Se posso essere utile non mi tirerò indietro”.

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