Repubblica dedica uno spazio fisso alle morti sul lavoro. Uno Spoon River che racconta le vite di ciascuna vittima, evitando che si trasformino in banali dati statistici. Vite invisibili e dimenticate. Nel nostro Paese una media di tre lavoratori al giorno non tornano a casa e “Morire sul lavoro” vuole essere un ininterrotto monito rivolto alle istituzioni e alla politica finché questo “crimine di pace” non avrà fine.
“Mio fratello che guarda il mondo
E il mondo non ti assomiglia
Mio fratello che guarda il cielo
E il cielo non ti guarda
Se c’è una strada sotto il mare
Prima o poi ci troverà
Se non c’è modo di entrare nel cuore degli altri
Prima o poi verrà rintracciato
Sono nato e lavorato in ogni paese
E ho difeso a fatica la mia dignità
Sono nato e morto in ogni paese
E ho camminato per tutte le strade del mondo
Quello vedi”.
Georghe ha difeso con difficoltà la sua dignità. È nato e ha lavorato in ogni paese, cantava Ivano Fossati. È nato in Romania ed è morto in Italia. È morto sul lavoro: due settimane di agonia in ospedale a Roma, lottando per la vita che era stata segnata dalla caduta dal tetto di un capannone industriale a metà strada tra Latina Scalo e Sermoneta, nel Lazio. “Una parte di me è morta con te, anima mia! Che Dio ti riposi in pace, mio buon padre!”, ha scritto sui social Georgiana, la figlia di Georghe Breahna che aveva 51 anni e aveva un altro figlio. “Sono senza parole, senza parole! – scrive Stojan a Georgiana –. Che Dio lo perdoni e riposi in pace. Non ci posso credere, mi rifiuto di crederci: un uomo e un padre con un’anima grande e pieno di vita, orgoglioso della sua meravigliosa famiglia! Dio e tuo padre ti daranno la forza più grande!”. Georghe che ha lottato per difendere la sua dignità.