«Bianchina come sorella e zia Jole come mamma» – .

«Bianchina come sorella e zia Jole come mamma» – .
«Bianchina come sorella e zia Jole come mamma» – .

Appassionata d’arte e grande giornalista, Andreina De Tomassi si definisce una “buona selvaggia”, ma forse è proprio per questo che negli ultimi anni è riuscita a creare la Casa degli Artisti, a Sant’Anna del Furlo, dove la natura si fonde con Arte della terra. «Ho avuto nonni nobili: nonna Gavina De Sogos di Macomer era contessa e nonno Andrea Montevecchi di Cesenatico era di stirpe nobile. Tutte e quattro le sorelle Montevecchi, compresa mia madre Sara, vivevano a Pesaro, il nonno era il direttore del carcere di Rocca Costanza”. Dopo la morte del nonno, la madre di Andreina iniziò a viaggiare e nel 1949 conobbe, in Valtellina, Carlo De Tomassi, uno spericolato pilota automobilistico: amore a prima vista.

Libero e solo

«Nel ’51 sono nata a Milano da una mamma nubile. Mio padre era già sposato. Perché selvaggia? Perché ho sempre vissuto senza radici né leggi. Sara, che voleva diventare commediografa, andava dalle sorelle a chiedere se volevano “adottarmi”, la zia Jole che viveva a Tripoli disse di sì. Così a tre anni sono arrivata a Tripoli e fino a dieci anni ho vissuto tra le palme e il mare di Giorgimpopoli, libera e sola». Fu Jole a insegnarle a scrivere, a farle spedire le letterine alla mamma: «Ricordo ancora il pennino che raschiava la carta, ero sempre tutta macchiata, mani e grembiule». Lesse “Il Corriere dei Piccoli” che pubblicò anche un racconto per lei: «Leggevo molto, e giocavo da sola, chiacchieravo con le bambole o con gli amici fantasma, la zia non voleva che uscissi con altri bambini, chissà perché. Mi portava spesso al cinema, al mare, ai giardini». La sua passione era Bianchina, un’adorabile cagnolina, la sua sorellina. «Ricordo l’invasione delle cavallette, il cielo nero e un vortice spaventoso dietro le persiane, restammo chiuse in casa per una settimana. Ogni tanto con zia Jole, che chiamavo mamma, andavamo nella pasticceria siciliana di zio Sebastiano. Sarà per questo che amo il gelato alla nocciola? Lì c’era il jukebox nuovo di zecca e impazzivo ascoltando musica italiana, ma quando passavano Claudio Villa o i classici napoletani scoppiavo a piangere e mia zia mi consolava con un cannolo siciliano». Ma un giorno: «Il disastro: Sara tornò decisa a riprendere la figlia e portarla a Roma. I coniugi Urso, senza figli, provarono a opporsi, ma non ci fu nulla da fare. E così nel 1960 scoprii Roma, placida e accogliente, le fontane, le grandi piazze, l’arte, la bellezza. Vivevo praticamente da sola in una mansarda a Monteverde, mamma lavorava sempre, passeggiavo con un altro cane, Dick». La scuola era il suo divertimento: «Fino alla terza media ero sempre la prima della classe, studiavo tanto, leggevo di tutto, in realtà volevo primeggiare perché per un lungo periodo sono stata La Tripolina». I suoi sogni? «Ero indecisa tra fare la cantante o l’attrice di teatro. Una mattina mia madre mi portò da Sara Ferrati, lessi un brano con entusiasmo e la grande attrice disse che avevo talento, ma che dovevo iscrivermi all’Accademia. Molto costoso. Impossibile». Andreina finalmente aveva delle amiche «e con loro, fino all’inizio delle superiori andavamo a fare le comparse a Cinecittà, a ballare allo “Studio Uno” della Rai e a “Sabato sera”, per mille lire al giorno. Bellissimo!». E ogni tanto le vacanze a Pesaro: «Mi ricordo il mare: nel ’66-67, c’erano giardinetti sempre fioriti, andavamo sul San Bartolo tra le ginestre». Poi è esploso tutto: «L’amore, il ’68, le risse, le amiche, le discussioni infinite, le passeggiate notturne per Roma, i croissant all’alba». Finisce il liceo e sposa il suo primo amore, nel ’72: «Nozze in Campidoglio, tutte le amiche in minigonna, le amiche con i capelli lunghi. Il matrimonio, quasi un campeggio, finisce nel ’76, avevo 25 anni. Ero libera e sola e fu a quel punto che “riscoprei” mia madre, e iniziammo a girare per l’Italia e buona parte d’Europa, diventammo amiche».

Il punto di svolta

Nel frattempo, zia Jole era tornata in Italia, a Rapallo: «Andavo spesso da lei, soprattutto quando ero triste e non sapevo cosa fare della mia vita. Mi ha consolato con la sua cucina marchigiano-siciliana. Indimenticabile”. La svolta: «Dopo tanti “lavoretti”, fu nel ’76, quando fui assunto dal sindacato dei critici cinematografici. In quello scantinato, grazie al mio capo Giovanni Grazzini, una sorta di padre, ho imparato tutto: a scrivere, sul mensile “Cinecritica”, a organizzare convegni, a conoscere i mille festival cinematografici in Italia e all’estero».

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Corriere Adriatico

 
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