Ridateci Shakespeare! Fino al 14 luglio “Prato Inglese” a Carignano – .

Ridateci Shakespeare! Fino al 14 luglio “Prato Inglese” a Carignano – .
Ridateci Shakespeare! Fino al 14 luglio “Prato Inglese” a Carignano – .

Un giorno, alla fine del millennio scorso, si dice che dopo aver visto “Romeo + Giulietta” di Baz Luhrmann, Keira Knightley chiese a sua madre Sharman Macdonald di iniziare a scrivere un seguito, ovvero cosa sarebbe potuto succedere ai Capuleti e ai Montecchi veronesi , familiari e amici, un tempo i giovani e sfortunati amanti furono sepolti all’interno della cripta e una volta fu firmata la pace dal principe Escalus entro le mura della città. Dalla proposta della figlia nasce “Dopo Giulietta”, un testo dove si assaporava ben poca pace, dove chi in passato aveva avuto mano facile con le spade continuava nel suo passatempo di alterchi e risse più o meno sanguinose, dove la città di Verona, guardandola con occhio contemporaneo, diventava facilmente il terreno periferico di Edimburgo o New York, di Liverpool o Dublino, dove con un guizzo felice quella Rosalina prendeva forma e importanza come una protagonista che nei sogni iniziali occupava il cuore e mente del bellissimo Romeo ma che poi, come sappiamo, ha dovuto cedere il passo. Certo, esiste una tregua, secondo le direttive del principe, ma il fuoco continua a covare sotto la cenere. C’è spazio per un approccio amoroso tra Benvolio e Rosalina, che mostra un carattere felino sempre impetuoso e pronto alla lotta, c’è spazio per le trame di Valentino, il fratello gemello del defunto Mercuzio, c’è il buon Petruccio, fratello di Tebaldo, che vorrebbe vivere in pace. Mentre il tribunale, nel processo seguito alla morte dei due ragazzi, condanna all’esilio la nutrice e al patibolo lo speziale che ha fornito il veleno, Benvolio sventa un duello che vede già Rosalina e Valentino con le armi in mano.

In questa quotidianità vissuta sempre sul filo del rasoio, “si costruisce una fiaba moderna che parla di amore e odio, speranza e riscatto”, sottolinea Filippo Dini nelle sue note di regia. È lo specchio di un odio che continua, che passa di padre in figlio, di un passato che torna, che prosegue senza il minimo sospetto di voler cambiare, è una quotidianità in cui si dibatte una gioventù malconcia e perennemente sulla difensiva, è l’attesa del nemico e l’agguato. Ma anche di ricordi, di sensazioni inespresse, di un amore buttato via. Ma “After Juliet” è anche il versante opposto del precedente shakespeariano, è l’annullamento del verso alto e del linguaggio, è la contemporaneità trascinata via senza guizzi e convinzioni, pallidamente (ti sentiresti quasi Romeo a dire “stai zitto, sta’ zitto, Mercuzio, sta’ zitto!, stai parlando di niente”), è la presenza di personaggi e fantasmi che hanno la stessa vana consistenza del testo, dove i fatti riempiono la pagina e la scena senza però convincere, senza creare l’orizzonte di un sentimento, di un coinvolgimento. Affacciandosi a un certo momento nei 100′ dello spettacolo anche una leggera noia. Insomma, un testo di cui non si è notata l’assenza. Il segno positivo, buon Dio, è conoscere, tra i tanti allievi della Scuola Stabile del Teatro di Torino che popolano il dittico di “Prato Inglese” (fino al 14 luglio sul palco del Carignano), una giovane attrice (chiamiamola così, i meriti li ha), della sua maturità e della sua autenticità: si chiama Maria Trenta, interpreta Rosalina, lo fa con rabbia e candore e con tutto il rammarico del tempo trascorso, svolge un primo monologo innanzitutto in modo eccellente, è forte nei toni e nelle riflessioni, sicura, una bella prova, un inizio che porterà, si spera, ad altri titoli, ad altri palcoscenici.

Quel che è andato peggio è stato il “Romeo e Giulietta” visto la sera prima. È il biglietto d’addio di Dini, definitivamente partito e chiamato oggi a governare le sorti dello Stabile Veneto, che ci ha regalato spettacoli apprezzati con un discreto se non ottimo successo, come “Così è (se vi pare)”, “Misery”, “Ghiaccio”, un grande “Crogiuolo” di Miller e un altrettanto convincente “Osage County”, spettacoli che ce lo hanno fatto apprezzare, forse discutere, ma a cui si è sempre dovuto riconoscere una grande onestà drammaturgica ed efficace. Infine, ci siamo imbattuti in Shakespeare, ahimè il povero, lacero, lugubremente aggiornato, pieno di soluzioni e (gravi) peccati registici che lasciano il segno e lo spettatore attonito e sempre più brancolante nel buio. Se avete il testo tra le mani, forse sto dicendo una parolaccia?, dritto di sempre, un ragazzo e una ragazza che si incontrano e si amano e vanno incontro alla morte, perché – e non è un discorso omofobo! – bisogna togliere i tratti di quel ragazzo a Romeo per affidarli a un’interprete donna, con una scelta che appare a metà tra l’astuto e il forzato e il finto, e che non è né giusta né coerente, e pensare proprio in un’occasione come questa a una relazione omosessuale. Perché la nutrice deve essere nata sotto il cono fumante del Vesuvio, perché è obbligatorio mostrare i giovani veronesi come esempi di gang metropolitane, in continua guerriglia, in tute mimetiche, con spadoni e pietre per fracassarti il ​​cranio. Perché affittare i palchi del Carignano per travestirli dal lontano balcone di Giulietta, perché costringere i giovani attori a urla estenuanti e continue anche se al momento non ce n’è bisogno (nemmeno Frate Lorenzo che urla?). Perché, tutti in scena, ciliegina sulla torta finale, con toni drammatici accesi e un gran numero di feroci colpi al petto, cantano la marcia di Topolino che “solo tu puoi capire i mille e mille sogni di un bambino”. Se escono come gatti spettinati, ti accorgi che di tutta la poesia trovata benissimo in altre precedenti messe in scena nemmeno datate chissà quando, restano solo le briciole, che ti resta solo il rumore assordante e la carneficina della guerra. Non credo che “Romeo e Giulietta” sia solo questo. I giovani attori ce la mettono tutta, la maggior parte con impegno e molti con passione; se la debole Giulietta di Martina Montini non convince, il Romeo di Alice Fazzi cerca di esprimere irruenza e atteggiamenti più adatti a una personalità maschile, il Mercuzio di Iacopo Ferro ha le note il più delle volte giuste e forse il più convinto e convincente della serata sembra essere il Capuleti di Samuele Finocchiaro – quando detta l’ultimatum alla figlia non c’è bisogno di stravolgere il testo e attualizzarlo visivamente, il messaggio esce forte e ben definito dalle parole che hanno più di cinquecento anni: danno i brividi allo stesso modo -, unito alla moglie Hana Daneri.

Elio Rabbione

Nelle immagini, il regista Filippo Dini e un momento delle prove (foto di Luigi De Palma).

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