Quanto contano le vicepresidenze della Commissione europea? – .

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Quanto contano le vicepresidenze della Commissione europea? – .

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Giovedì 27 giugno il Consiglio europeo ha approvato l’accordo sui principali incarichi dirigenziali delle istituzioni comunitarie. I capi di Stato e di governo hanno approvato le nomine della tedesca Ursula von der Leyen, riconfermata presidente della Commissione, del portoghese António Costa presidente del Consiglio e dell’estone Kaja Kallas alla guida della diplomazia europea. Questo accordo ha deluso e irritato il primo ministro italiano Giorgia Meloni, che ha deciso di esprimere il suo dissenso al momento del voto, astenendosi sulla nomina di von der Leyen e opponendosi a quelle di Costa e Kallas. Insieme a Meloni, l’unico altro leader che ha contestato l’accordo è stato il primo ministro ungherese Viktor Orbán, che ha votato contro von der Leyen, a favore di Costa e si è astenuto su Kallas.

Meloni ha commentato questa scelta in modo molto polemico, lamentando di non essere stata coinvolta nelle trattative nonostante le elezioni dell’8 e 9 giugno avessero visto l’ECR, il gruppo conservatore di cui Meloni è presidente, emergere come terzo gruppo al Parlamento europeo per numero di rappresentanti eletti. Ma alla fine ha retto l’accordo definito dai negoziatori delle tre principali famiglie che storicamente costituiscono la maggioranza europeista: il Partito Popolare (PPE) di centro-destra, i Liberali di Rinnovamento di centro-sinistra e i Socialisti di centro-sinistra.

È un dato piuttosto significativo: è la prima volta che l’Italia non approva la nomina del Presidente della Commissione nel Consiglio europeo, ed è anche la prima volta che un Paese fondatore dell’Unione contesta la scelta fatta dal Consiglio. Dunque, per capitalizzare il buon risultato elettorale del suo partito, e per smentire almeno in parte i commenti che la descrivono isolata o marginalizzata in Europa, Meloni dovrà negoziare direttamente con von der Leyen per ottenere un buon ruolo per l’Italia all’interno della Commissione. A differenza di Costa e Kallas, infatti, von der Leyen dovrà ottenere un voto di conferma dal Parlamento europeo a maggioranza assoluta, cioè almeno 361 dei 720 neoeletti. Popolari, Socialisti e Liberali hanno 399 rappresentanti nell’assemblea; spesso, però, l’elezione del Presidente della Commissione, che avviene a scrutinio segreto, è caratterizzata da una significativa presenza di “cecchini”, cioè singoli eletti che votano in dissenso rispetto alle indicazioni del proprio gruppo.

Per questo motivo, von der Leyen deve ora negoziare con i vari leader di partito e capi di governo per assicurarsi una maggioranza solida, tra cui Meloni. L’obiettivo indicato da vari membri del governo italiano è chiaro: ottenere una vicepresidenza della Commissione. Ma questo risultato, anche se il governo italiano dovesse ottenerlo, non garantirebbe di per sé di poter avere voce in capitolo nelle politiche che la Commissione adotterà nei prossimi cinque anni.

Giorgia Meloni dialoga con i ministri Antonio Tajani e Raffaele Fitto durante il dibattito al Senato alla vigilia del Consiglio europeo, 26 giugno (Mauro Scrobogna/LaPresse)

In un certo senso, la Commissione ha sia una composizione fissa che una forma variabile. Infatti, è stabilito dai Trattati istitutivi dell’Unione che la Commissione sia composta da un membro per ogni Stato, tutti chiamati ad agire nell’interesse dell’Unione e non in quello del proprio Paese. Oltre a von der Leyen, ci saranno quindi 26 commissari, ognuno con deleghe specifiche e conseguenti prerogative. Ma all’interno di questo perimetro, von der Leyen potrà muoversi un po’ come le pare, plasmando la sua Commissione in modo molto arbitrario. In questa ampia libertà, deciderà anche se e quanti vicepresidenti nominare, e quali poteri affidare loro.

Le vicepresidenze non hanno tutte lo stesso peso. Quelle che contano davvero sono quelle cosiddette esecutive, che tra l’altro hanno una Direzione generale esclusiva a supportarle, e che poi hanno un controllo più o meno diretto sulle altre Direzioni generali principali (abbreviate in DG nel gergo degli addetti ai lavori). Le Direzioni generali sono strutture molto complesse composte da un capo, una decina di consiglieri e diverse centinaia di funzionari che rispondono alle richieste politiche della Commissione, e si occupano dell’esecuzione concreta dei progetti dal punto di vista tecnico. Coprono vari ambiti, dalla comunicazione alla difesa, passando per l’economia e gli aiuti umanitari. In questi uffici lavorano spesso i famigerati “burocrati di Bruxelles”, oggetto di critiche e insulti nella propaganda antieuropea.

I direttori generali, cioè i funzionari che dirigono queste strutture, possono finire per avere più influenza di alcuni commissari, e anche loro finiscono per essere oggetto di trattative e accordi. Le altre vicepresidenze, quelle non esecutive, hanno una rilevanza più formale e limitata: garantiscono una maggiore visibilità mediatica, il potere di coordinare i lavori della Commissione su determinati temi, e poco altro.

Valdis Dombrovskis e Margrethe Vestager, due dei tre vicepresidenti esecutivi della Commissione europea uscente, a Bruxelles, 16 maggio 2023. (Geert Vanden Wijngaert/AP Photo)

Nella commissione uscente, ad esempio, delle sette vicepresidenze, quelle esecutive erano solo tre, a cui facevano capo le tre direzioni generali. Una, con responsabilità su Concorrenza e Digitalizzazione, era guidata dalla danese Margrethe Vestager, a cui rispondevano direttamente la Direzione generale per la Competitività (DG COMP), guidata dal francese Olivier Guersent, e soprattutto anche la Direzione generale per le Politiche digitali, guidata dall’italiano Roberto Viola. Un’altra, con responsabilità su Commercio e attuazione del Recovery Plan, ovvero il grande piano di investimenti varato durante la pandemia e finanziato con circa 800 miliardi di fondi comuni, era guidata dal lettone Valdis Dombrovskis, che era supportato dalla Direzione generale per il Commercio guidata dalla tedesca Sabine Weyand e controllava diverse altre Direzioni generali nel settore economico, finanziario e di bilancio. La terza vicepresidenza esecutiva, infine, è stata quella per il Green Deal e la Transizione: inizialmente assegnata all’olandese Frans Timmermans, è stata poi affidata dall’agosto 2023 allo slovacco Maros Sefcovic. Ha il controllo esclusivo della Direzione generale per l’ambiente (DG ENV) guidata da un’altra tedesca, Florika Fink-Hooijer.

Gli altri quattro vicepresidenti – lo spagnolo Josep Borrell, la ceca Vera Jurová, la croata Dobravka Suica, la greca Margaritis Schinas – al di là delle loro specifiche delegazioni, hanno avuto un ruolo relativamente marginale. Anzi, alcuni commissari che non hanno la qualifica di vicepresidente hanno spesso mostrato un peso politico decisamente maggiore, perché hanno gestito delegazioni più importanti e controllato più o meno direttamente Direzioni generali più strategiche. Un caso emblematico, in questo senso, è stato quello di Pierre Moscovici, il commissario socialista francese che nel 2014, quando è entrato nella Commissione guidata da Jean-Claude Juncker, ha deciso di rinunciare alla qualifica di vicepresidente in cambio del controllo esclusivo della Direzione generale per gli affari economici e finanziari (DG ECFIN), allora guidata dall’economista toscano Marco Buti.

I precedenti concedono al Presidente della Commissione ampia libertà nel darle forma. Nella sua prima Commissione, tra il 2004 e il 2009, il portoghese José Barroso, del PPE, nominò sette vicepresidenti; nel suo secondo mandato, nei cinque anni successivi, ne nominò dieci; Juncker, lussemburghese e anche lui del PPE, ne scelse cinque, ma per la prima volta indicò un vicepresidente con maggiori poteri, il cosiddetto Primo Vicepresidenteindicandolo in olandese Timmermans.

Nel 2019, quando si è trovata a dover comporre la sua Commissione, von der Leyen ha dovuto gestire trattative molto tempestose. L’accordo iniziale era di nominare due vicepresidenti, e di sceglierli tra i I migliori candidati non eletti. Infatti, ogni famiglia europea aveva indicato il proprio candidato per la presidenza della Commissione fin dalla campagna elettorale (in tedesco Candidato principale (che significa “leader” o “candidato leader”). Alla fine è stata eletta von der Leyen, che non era la candidata del PPE ma è stata scelta dopo la Candidato principale Popular, Manfred Weber, era stato respinto dal presidente francese Emmanuel Macron. Ne seguì una difficile trattativa, al termine della quale si decise di rispettare l’accordo iniziale, ovvero che sarebbero stati scelti come vicepresidenti esecutivi: I migliori candidati delle altre due principali famiglie politiche, e quindi Vestager per i liberali e Timmermans per i socialisti. Quando tutto sembrava concluso, però, il PPE pretese anche di esprimere un vicepresidente operativo, oltre alla presidente von der Leyen: ed è così che si aggiunse la carica di Dombrovksis.

Thierry Breton, Commissario europeo per il mercato interno, proposto dal governo francese come vicepresidente esecutivo della prossima Commissione europea (Jean-Francois Badias/AP Photo)

Anche questa volta, stando a quanto emerge dalle trattative in corso, la base dell’accordo che von der Leyen propone ai vari leader è quella di garantire una vicepresidenza esecutiva a ciascuna delle tre famiglie politiche che hanno sostenuto la sua riconferma. Quanto ai liberali, è molto probabile che per questa carica venga proposto il francese Thierry Breton, commissario uscente con importanti responsabilità per il Mercato interno e la Cybersecurity. Giovedì Macron ha confermato l’intenzione di confermare Breton, con l’auspicio che gli vengano assegnate anche competenze economiche e industriali, tra cui quella molto importante sulla Difesa, e una vicepresidenza esecutiva. La candidatura di Breton appare piuttosto corposa: sia per l’importante ruolo che ha saputo ritagliarsi negli ultimi cinque anni, sia perché finora la Francia, che è il secondo Paese più importante dell’Unione, non ha ancora rivendicato o ottenuto incarichi di prestigio nella nuova legislatura.

Anche i socialisti sembrano aver individuato il loro candidato per la vicepresidenza, sebbene le trattative siano ancora in una fase iniziale. Si tratta del ministro spagnolo per la transizione ecologica Teresa Ribera, che il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha già sponsorizzato per un ruolo importante nella Commissione con responsabilità specifiche per l’ambiente e il green deal. Assumerebbe essenzialmente gli stessi poteri della Sefcovic uscente, inclusa la carica di vicepresidente esecutivo.

– Leggi anche: In Europa Giorgia Meloni ha anche un problema con gli alleati polacchi

Quanto al Partito Popolare, il governo lettone ha già espresso la volontà di confermare Dombrovskis come commissario. Non è però certo che avrà le stesse deleghe e lo stesso ruolo. La vicepresidenza esecutiva del Ppe potrebbe essere sì assegnata a un italiano: ma ciò significherebbe che si dovrebbe scegliere un commissario di Forza Italia, cosa che difficilmente Meloni potrebbe accettare, che è capo del governo e che alle elezioni europee ha ottenuto il triplo dei voti del partito di Antonio Tajani.

Meloni, invece, sembra intenzionata a ottenere da von der Leyen il riconoscimento di una vicepresidenza esecutiva per l’Italia a prescindere dalle maggioranze e dalle appartenenze politiche europee. Il buon rapporto che Meloni ha saputo costruire nell’ultimo anno e mezzo con von der Leyen fa pensare che ci siano buone possibilità, anche perché von der Leyen ha già dato l’impressione di voler accordare un riconoscimento politico a Meloni su alcuni temi specifici (uno su tutti: l’immigrazione). Inoltre, potrebbe aver bisogno dei voti dei 24 eurodeputati di Fratelli d’Italia per assicurarsi l’approvazione del Parlamento europeo.

 
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