Kurt Cobain e la fine della nostra innocenza – Giovanni Ansaldo – .

Kurt Cobain e la fine della nostra innocenza – Giovanni Ansaldo – .
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Quando ero adolescente, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni 2000, molti miei coetanei erano ossessionati dai Nirvana. Sfoggiavano magliette con la copertina di Non importa e il volto di Kurt Cobain. Ho faticato un po’ ad appassionarmi alla band di Seattle, che all’epoca suonava troppo cupa per i miei gusti. Ho preferito ascoltare chi cantava di voler vivere per sempre a chi chiedeva ripetutamente di essere violentata (in realtà Stuprami era un pezzo di denuncia della violenza sulle donne, ma cosa ne sapevo) oppure manifestava istinti suicidi (era molto più complesso di così ma, ancora, cosa ne sapevo). Quindi sì, carino Non importa, ma ho preferito qualcos’altro. E poi mi piaceva schierarmi un po’ per principio contro le icone musicali più inflazionate, da Bob Marley a Jim Morrison. E Cobain, superficialmente, mi sembrava uno di quelli.

Mi ci sono voluti alcuni anni per comprendere meglio Kurt Cobain, che si suicidò trent’anni fa (il 5 aprile 1994). E, come sempre, gli spunti provengono dalle canzoni piuttosto che da documentari e libri. Nel mio caso, in particolare, da Pollysesto brano di Non importa. Anche io da ragazzino avevo strimpellato quel semplice riff ma, non essendo abituato a leggere bene il testo, non capivo di cosa stesse parlando. Polly quello, come Stupramiè un pezzo sullo stupro.

Polly ricordare qualcosa che è realmente accaduto. Nel 1987, una ragazza di 14 anni stava tornando da un concerto a Tacoma, Washington. È stata catturata da Gerald Friend, un uomo che aveva già scontato anni di prigione per un caso di violenza sessuale e l’aveva attirata nella sua macchina fingendo di volerle dare un passaggio. Un amico l’ha portata nella sua casa mobile, l’ha torturata e violentata. La ragazza riuscì a fuggire e a denunciare Amico, che finì nuovamente in carcere, dove si trova ancora oggi. Quel “Polly vuole un cracker” dell’inizio mi è apparso all’improvviso in tutta la sua brutalità. E la scelta di Cobain di assumere la prospettiva del boia rende il messaggio contro la violenza ancora più forte, seppure inquietante.

I Nirvana, a conferma di ciò, si esibirono in diversi concerti di beneficenza a favore delle vittime di stupro e in difesa dei diritti delle donne. E il fatto che Cobain riuscisse a toccare temi così profondi e difficili con una manciata di accordi, con poche parole taglienti come coltelli, non era certo comune. Era un argomento per adulti. Bob Dylan, dopo aver ascoltato la canzone per la prima volta ad un concerto, dichiarò: “Quel ragazzo ha un cuore”. Insomma, l’ovvio mi è venuto in mente quasi all’improvviso solo dopo anni di ritardo. Meglio tardi che mai.

Trovo invece che, trent’anni dopo, non ci sia molto altro da dire sul lato umano di Cobain, una trappola nella quale continuiamo a cadere, tirati per la giacca dalla spettacolarizzazione che da sempre accompagna il culto delle rock star e ha ha accompagnato in modo morboso la morte dell’artista americano.

Mi sento solo di ribadire una cosa già detta più volte, e meglio, da altri: Cobain, attraverso le sue canzoni, ci aveva mostrato prima di altri che il nuovo millennio immaginato da noi ricchi occidentali sarebbe stato molto meno roseo di quanto sembrasse. Oggi trovo dentro Qualcosa nel modo (che canzone immensa), in Scatola a forma di cuore o dentro Sai che hai ragione la stessa inquietudine dei Radiohead Il ragazzo A. Oggi Cobain, L’inno nazionale, Nessun logo di Naomi Klein, il G8, sembrano tutti piccoli tasselli, al momento sottovalutati, della fine della mia innocenza. E quello di tanti altri.

 
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