DESTINO MISERICORDIA – 9 – .

DESTINO MISERICORDIA – 9 – .
DESTINO MISERICORDIA – 9 – .

votazione
8.5

Che l’epoca d’oro dei Mercyful Fate non siano stati gli anni Novanta è un fatto abbastanza noto, e del resto, quando entri letteralmente nella storia di un genere musicale con un EP e due full-length, può essere difficile superare te stesso, anche quando ti chiami Denner e Shermann o King Diamond. Come la storia ci ha insegnato, anche dopo i capolavori sopracitati, il Re dei Diamanti (o Re dei Diamanti, se preferite) è riuscito ad aggiungere altri tasselli all’immenso puzzle dell’heavy metal – ma questa è un’altra storia (horror, naturalmente) – ma possiamo dire che, sebbene i Mercyful Fate non abbiano mai fatto un album veramente brutto, i lavori usciti dopo “Don’t Break The Oath” sono stati tutti buoni ma mai epocali. È stato quindi con una certa sorpresa che, quando è uscito “9” e imberbe lo abbiamo messo nel walkman con aspettative non proprio elevate, smorzate dagli universali amici più grandi, abbiamo quasi avuto uno shock. Se è vero che “9” non è un capolavoro assoluto, è anche vero che se il metro di paragone di un album mediocre (fama che si è fatta nel corso dei venticinque anni di vita) fosse quello di quest’opera, vivremmo in un mondo fatto di album bellissimi. Sicuramente molto ha fatto l’età ‘giusta’ all’uscita dell’album, ma anche oggi, riascoltando le trame di quest’opera, non possiamo fare a meno di rabbrividire di fronte a momenti davvero funzionali e, in generale, a brani che magari non spiccano tutti, ma che non scendono mai sotto una certa soglia di pericolosità.
L’apertura affidata a “Last Rites” ci sorprende con delle strane chitarre del duo composto da Hank Shermann e Michale Weid, insieme da un paio d’anni, che danno vita a un incipit che forse non stende, ma che scorre con vivacità e che resta in testa con un ritornello efficace. Segue “Church Of Saint Anne”, di cui apprezziamo ancora oggi la sfrontatezza con cui viene pronunciata ““Sa(n)t’Anna”per un brano ritmato che si distingue soprattutto per l’ispirazione melodica e un finale molto teatrale. Gli acuti di King Diamond sono meno presenti all’interno dell’album, lasciando spazio a voci melodiche come quelle di “Sold My Soul”, brano decisamente insolito, che inizia con un basso effettato ma che rimanda all’altezza del ritornello, roccioso e istrionico. “House On The Hill” parte con energia, battezzata da un riff abbastanza anni Ottanta e convincente, ma soffre di alcune sonorità strane e di una certa piattezza. Altra storia con “Burn In Hell” che, pur essendo alienante per l’introduzione, consente al duo di asce di giocare con assoli e riff scritti appositamente per accompagnare il falsetto e le mascherate vocali di King Diamond, con molti cambi di tempo e un approccio abbastanza diretto. Un brano decisamente figlio del suo tempo (la produzione dell’album, in generale, è molto ‘moderna’), che fa il suo lavoro senza essere nostalgico, anche se non siamo ancora a livelli molto alti. A detta di chi scrive, questi livelli si raggiungono con “The Grave”, con il suo testo luciferino e le sue atmosfere che ci riportano ai tempi di “Satan’s Fall”, seppur con le dovute distinzioni – soprattutto nel modo in cui vengono suonate le chitarre e nell’atmosfera che si crea dopo la pausa che velocizza il brano. Il finale non è un capolavoro, forse, ma se solo avessimo più canzoni così.
“Insane” è forse il brano meno riuscito del lotto, con una struttura forzatamente aggressiva basata su tre minuti sorretta dalla doppia cassa di Bjarne T. Holm e da un riffing non proprio sensazionale. Si passa rapidamente a “Kiss The Demon”, brano che condivide con “Sold My Soul” una sorta di stranezza nata da ispirazioni risalenti probabilmente a prima dello storico EP d’esordio, quindi agli anni Settanta. Al di là dell’insolita presentazione con quell’intro soft che verrà riproposto per tutta la durata del brano, “Kiss The Demon” ha una struttura molto efficace, capace di sedurre con la voce suadente che apre il brano e un’apertura dilaniata da un riffing squisitamente heavy metal, con un ritornello semplice e old school, che raggiunge il suo apice nel passaggio ai due minuti e mezzo di canzone. All’epoca ci innamorammo perdutamente della successiva “Buried Alive”, per la sua storia di vendetta dall’aldilà che tanto ricorda “Evil” e per una struttura musicale che la rende il brano migliore dell’album, sicuramente quello che potrebbe competere senza sentirsi inferiore ad alcuni grandi classici. Tuttavia, si percepisce chiaramente l’epoca in cui è stata scritta la canzone, che avanza cadenzata nella narrazione velenosa (con un King Diamond convincente e convinto), alternando arpeggi e riff marziali, rallentamenti e ripartenze e un finale tra i migliori di questa fase della carriera della band. L’album si chiude con la sulfurea title-track, un brano ancora una volta insolito (cosa che, come abbiamo visto, capita spesso, forse sintomo di una band alla ricerca di nuovi modi di esprimersi), con arpeggi sinistri e un’andatura zoppicante che esplode nel ritornello, il che non fa di “9” un brano manifesto ma fa certamente apprezzare il tentativo. L’album finisce e per molto tempo anche la storia dei Mercyful Fate, che non riuscirono a mantenere intatta la seconda reunion, finché non si incontrarono di nuovo circa dieci anni dopo. E questa è un’altra storia.
Insomma, la fama di questo album è a nostro avviso immeritata, forse dettata dal periodo e da tutta una serie di fattori che, a un quarto di secolo dalla sua uscita, crediamo possano finalmente essere scremati dall’opera stessa, dando modo a “9” di comparire se non nella classifica dei capolavori assoluti della band (che coincidono con alcuni capolavori assoluti dell’heavy metal stesso, a ben guardare) di certo nemmeno in quella dei pessimi prodotti della band danese. Da riscoprire e gustare nella sua forma, forse non perfetta, ma proprio per questo deliziosa.

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