Perché Israele ha ritirato le truppe da Khan Yunis e quanto ha influito la pressione degli Stati Uniti – .

Conflitto israelo-palestinese

8 aprile 2024

17:09

Lorenzo Trombetta: “Ci sono due fattori che hanno determinato il ritiro di Israele da Khan Younis: la pressione politica degli Stati Uniti, che da tempo chiedevano un allentamento della pressione sul fronte meridionale di Gaza. E forti pressioni interne, perché una delle condizioni poste da Hamas per la ripresa dei negoziati sulla liberazione degli ostaggi era la riduzione degli attacchi israeliani nella zona sud della Striscia”.

Intervista con Lorenzo Trombetta

Analista di Limes, corrispondente Ansa e ricercatore con sede a Beirut.

Il governo israeliano ha ordinato ieri il ritiro di tutte le truppe dall’isola Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza. La decisione del gabinetto di guerra di Benjamin Netanyahu è stata motivata dall’opinione pubblica interna con la distruzione di tutte le restanti cellule di Hamas che persistevano nella città e con la necessità di preparare gli uomini per le prossime operazioni militari, a partire dall’attacco a Rafah che si presenta ogni giorno come imminente.

Nel frattempo, migliaia di palestinesi, sfollati da Khan Yunis lo scorso autunno, sono tornati in città e si sono trovati di fronte a uno scenario apocalittico. Gli edifici rimasti intatti sono estremamente rari, tanto che, secondo Al Jazeera, almeno il 90 per cento del nucleo urbano sarebbe “distrutto e irriconoscibile”. Ma cosa c’è veramente dietro la decisione del governo Netanyahu di allentare la pressione nel sud di Gaza? Quanto hanno influito le ultime dichiarazioni di Joe Biden e le pressioni interne ed esterne? E soprattutto, come si inserisce il ritiro di Khan Yunis nel complesso negoziato con Hamas per raggiungere un cessate il fuoco? Lo ha chiesto Fanpage.it a Lorenzo Trombetta, analista del Limes, corrispondente Ansa e ricercatore con sede a Beirut.

Lorenzo Trombetta

Ieri l’esercito ha ritirato la 98esima Divisione – l’ultima delle divisioni da combattimento di terra che operava nel sud della Striscia, nella zona di Khan Yunis: cosa si nasconde dietro questa decisione di Tel Aviv?

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Sono principalmente due i fattori che hanno determinato questa decisione di Benjamin Netanyahu: innanzitutto la pressione politica da parte degli Stati Uniti, che da tempo chiedevano un allentamento della pressione sul fronte meridionale di Gaza. Sappiamo anche che Tel Aviv sta subendo una forte pressione interna, perché una delle condizioni poste da Hamas per la ripresa dei negoziati sulla liberazione degli ostaggi era la riduzione degli attacchi israeliani nella zona sud della Striscia. Credo che la decisione di Netanyahu di ritirarsi da Khan Younis sia dovuta principalmente a questi due elementi, oltre che a considerazioni tattiche e operative sul terreno, ovvero la necessità di Israele di concentrare il proprio sforzo militare verso il confine con il Libano, facilitando la presenza, e anche l’attenzione , nel sud della Striscia di Gaza. Sono queste le ragioni che hanno spinto il governo israeliano a ritirare le proprie truppe da Khan Younis, con una netta prevalenza, però, di ragioni politiche su quelle militari e strategiche.

Dopo l’uccisione dei sette operatori umanitari della World Central Kitchen c’è stata una telefonata tra Biden e Netanyahu che è stata definita molto dura. Dopo quell’appello, Israele ha ammesso le proprie responsabilità nel raid e ieri ha deciso di lasciare Khan Younis. È una coincidenza?

Credo che i cambiamenti nella condotta di Israele siano stati molto più graduali. Da gennaio la pressione americana è sempre più evidente ma va ricordato che è stata accompagnata da un costante supporto militare e logistico: solo pochi giorni fa, infatti, gli Usa hanno approvato la vendita di una nuova tranche di armi, munizioni e bombe, per dimostrazione che le pressioni non vanno mai confuse con i dati di realtà. Va inoltre considerato che tra pochi mesi si voterà negli Stati Uniti e che Biden, pur sostenendo strategicamente Israele, deve tenere conto dell’opinione pubblica interna inviando segnali di moderazione al suo elettorato. Certamente, però, i rapporti tra Biden e Netanyahu sono di continua negoziazione. La notizia delle ultime ore non arriva all’improvviso e non è frutto dell’ultima telefonata con la Casa Bianca; seguono invece lo scandalo internazionale dell’uccisione degli operatori umanitari del WCK, le accuse di genocidio alla Corte internazionale di giustizia e l’astensione degli Stati Uniti al voto del Consiglio di sicurezza dell’ONU per il cessate il fuoco a Gaza. Insomma, nulla di quanto accaduto negli ultimi giorni è avvenuto per caso.

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Il ministro della Difesa israeliano ha annunciato che il ritiro da Khan Younis serve a preparare l’attacco militare a Rafah. Quando potrebbe avvenire questo attacco?

Bisogna distinguere attentamente tra retorica e pratica: la prima prevede che, dopo il ritiro di Khan Younis, il governo israeliano debba comunque dichiarare che l’opera di smantellamento di Hamas continuerà. Ricordo, tanto per restare in Medio Oriente, che da 50 anni il governo siriano annuncia ogni giorno che libererà le alture di Golan. La pratica, però, è ben diversa: Israele ha certamente un piano operativo già pronto, ma dal punto di vista politico sferrare un attacco massiccio a Rafah è tutt’altro che semplice: ricordiamoci che Tel Aviv è sottoposta a pressioni interne, da parte degli Stati Uniti Stati e in generale della comunità internazionale. Questa pressione indica chiaramente a Netanyahu che Rafah non può essere attaccata: i costi umanitari per la popolazione palestinese sarebbero immensi e probabilmente insostenibili.

Cosa possiamo aspettarci dal nuovo round di negoziati attualmente in corso al Cairo?

Come abbiamo imparato in questi sei mesi, fare previsioni sull’esito dei negoziati è molto pericoloso perché i negoziati si svolgono sul filo del rasoio. Secondo quanto emerge dalle notizie che arrivano dal Cairo si può parlare di un ottimismo molto cauto, mentre secondo altri osservatori bisognerebbe essere più pessimisti. A questo punto credo che non resta che guardare ai fatti: Israele ha allentato la pressione nel sud di Gaza e questo è senza dubbio un segnale importante, che rende questo negoziato leggermente più florido dei precedenti. Ci sono però molte altre variabili da considerare.

Quale?

Hamas punta a raggiungere un “accordo quadro”, che costituirebbe una vittoria per il partito armato palestinese. Israele punta invece a fare alcune concessioni, tollerando porzioni minime della sovranità e del potere di Hamas su Gaza. Tel Aviv, quindi, deve continuare a cavalcare la retorica del 7 ottobre e per questo non può firmare l’accordo quadro che Hamas chiede. Questa è la grande distanza che separa le due parti, e solo i prossimi giorni ci diranno se verrà raggiunto un accordo almeno per il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e l’ingresso a Gaza di ingenti aiuti umanitari.

 
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