75 anni fa don Oreste Benzi diceva il suo sì al Signore – .

75 anni fa don Oreste Benzi diceva il suo sì al Signore – .
75 anni fa don Oreste Benzi diceva il suo sì al Signore – .

Era il 29 giugno 1949 quando don Oreste Benzi, oggi Servo di Dio, disse il suo sì per sempre al Signore. Fu ordinato sacerdote nel giorno della festa dei santi Pietro e Paolo. Riportiamo integralmente un articolo a firma di Alessio Zamboni e Nicoletta Pasqualini pubblicato su Sempre news che riporta un’intervista realizzata in occasione del 50° anniversario della sua ordinazione durante la quale il sacerdote “dalla tonaca lisoccia” svelò i passaggi fondamentali della sua fede.

75 anni di ordinazione sacerdotale

Il 29 giugno 2024 segna il 75° anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Don Oreste Benziil sacerdote dalla tonaca liso, instancabile apostolo della carità. Il giovane Oreste, nato a Rimini nel 1925, aveva solo 12 anni quando rispose alla sua chiamata interiore entrando in seminario. Un cammino tutt’altro che semplice, segnato dagli sconvolgimenti della seconda guerra mondiale che costrinsero il seminario a trasferirsi da Rimini a Bologna e poi a Montefiore Conca (PU), dove completò gli studi teologici. Infine, il 29 giugno 1949, festa dei Santi Pietro e Paolo, Oreste Benzi fu ordinato sacerdote dal vescovo di Rimini, monsignor Luigi Santa. Questo evento segna l’inizio del suo ministero sacerdotale, che avrà un impatto significativo sulla comunità locale e non solo. Pochi giorni dopo la sua ordinazione, il 5 luglio 1949, Benzi assume l’incarico di cappellano nella parrocchia di San Nicolò a Rimini. Qui rimane per 16 mesi, dedicandosi con particolare attenzione ai giovani. L’impegno verso le nuove generazioni diventa uno dei tratti distintivi del suo ministeroinfluenzando positivamente la vita di tanti ragazzi e ragazze della parrocchia.

Attenzione ai più fragili

La sua vita sacerdotale sarà segnata da a profonda attenzione alle fragilità e alle periferie esistenziali della società fino al 2 novembre 2007, giorno in cui i suoi occhi si aprirono sull’infinito di Dio. Di seguito riproduciamo parte di un’intervista contenuta nel libro “Ribellatevi”, edito Sempre Editore, raccolta in occasione del 50° anniversario di sacerdozio, celebrato nel 1999.

L’intervista

Quando hai sentito la vocazione al sacerdozio?

«Ero in seconda elementare. Avevamo un insegnante che aveva una capacità quasi magnetica di parlare, di intrattenerci. Un giorno ci parlò di pionieri, scienziati e preti. Ha saputo creare orizzonti molto ampi, senza limiti. Ci ha fatto sognare e i veri maestri sono proprio quelli capaci di farci sognare. Quel giorno tornai a casa e dissi: “Mamma, mi farò prete!”, e da quel momento non sono più cambiato. Appena ho potuto sono entrato in seminario, avevo 11 anni, ma i miei genitori non avevano i soldi per pagare la retta. Allora mio papà e mia mamma sono andati a mendicare, un atto che significa avere la massima fede, chiedere aiuto nel modo più umiliante. Questo mi ha aiutato molto, in seguito, quando sono andato anche a chiedere l’elemosina per costruire la casa giovanile “Madonna delle Vette”. I genitori aprono i figli alla vita con i loro gesti di vita, aprono i loro orizzonti e li aiutano a sfidare l’impossibile.»

Come ricordi i tuoi anni in seminario?

«Innanzitutto ricordo il nostro padre spirituale, un grande maestro che ci ha educati, ci ha guidati alla purezza, che non riguarda solo il sesso ma un cammino nella purezza di Dio. Mi ha fatto un bene enorme, per tutta la vita. Poi un altro da ricordare è il mio vicerettore, monsignor Emilio Pasolini. È stata una persona che ha speso tutta la vita per le anime, per l’apostolato. Il leitmotiv della sua esistenza era “farsi le anime”; cioè: se ami non ti misuri. Ha fatto del sacerdozio un’avventura gioiosa ma estremamente concreta. Dal quarto anno di liceo in poi sono sempre stato “prefetto”, cioè responsabile di un gruppo di seminaristi, quindi non potevo vivere da semplice seminarista, vivevo sempre da responsabile degli altri.»

C’è qualche fatto che ti ha particolarmente colpito?

«Ho frequentato il mio primo liceo nel seminario di Bologna, che poi fu chiuso per la guerra. Al terzo anno di liceo c’era un seminarista che era per noi un grande esempio per la sua vita di preghiera e di amore. Un giorno salì su una scala, alta un metro, per appendere un’immagine del Sacro Cuore. Una volta attaccata l’immagine, perse l’equilibrio e cadde all’indietro, battendo la nuca e morendo all’istante. Ci fece una grande impressione. Il padre spirituale, parlandoci dopo questo fatto, ci raccontò che da tempo il seminarista gli chiedeva di offrire la vita per i suoi compagni, ma lui gli aveva sempre detto di no. Il giorno prima di morire, però, il ragazzo aveva rinnovato la richiesta e lui, vedendo questa insistenza che durava da tempo, aveva acconsentito. Ciò che mi colpì non fu tanto la sua morte, quanto la sua dedizione, la sua generosità nell’offrire la vita per il bene dei suoi compagni. Io la chiamo “espiazione preventiva”.»

Qual era il tuo sogno da giovane prete?

«Vai in missione. Avevo chiesto al mio padre spirituale di poter andare ma ero molto cagionevole di salute e allora mi ha detto: “Aspetta, prima la teologia!”. In teologia ho chiesto ancora e lui mi ha risposto: “Aspetta di diventare prete!”. Nel frattempo, due dei miei amici più cari sono andati in missione; Dovevamo partire tutti e tre, invece sono rimasta a casa. Una volta diventato prete, mi nominarono assistente della Gioventù Cattolica e padre spirituale nel seminario, così non me ne andai mai più. Poi è iniziata la vita comunitaria. In un certo senso ho iniziato come missionario, ma in una forma strana: giro continuamente in tutti i luoghi dove si trova la Comunità Papa Giovanni XXIII, sia in Italia che in tanti altri Paesi del mondo».

Il momento più emozionante?

«La scoperta del mondo di quelli che chiamiamo i preju, i preadolescenti. Ero in cima al Catinaccio, nelle Dolomiti, ospite di un amico, sempre per motivi di salute. In mezzo a quelle montagne mi sono detto: qui bisogna fare una casa per gli adolescenti! Ho visto che l’ambiente li aiutava a spaziare verso l’infinito, che non ci sono limiti di cui gli adolescenti hanno tanto bisogno. Condurli all’incontro amichevole con Cristo è stato il motivo che mi ha spinto a iniziare il cammino con i preju nel 1953. Quando abbiamo progettato questa esperienza, non esisteva ancora nulla di simile.»

Come ti senti quando ti chiamano “sacerdote di frontiera”?

«Sento dire che… sembra un nome un po’… fuori dagli schemi!»

Qual è il tuo rapporto con Dio?

“Un rapporto che si fonda su tre certezze. Primo: la certezza assoluta che esiste. Secondo: che sono espressione, come tutti i fratelli, del suo amore. Terzo: che ci siano già in me le linee – che poi Cristo esplicita – di un cammino di tutta la persona verso la vita nel senso più bello, più pieno, un cammino di amore, di giustizia, di verità».

Quale forma di preghiera preferisci?

«Innanzitutto la celebrazione eucaristica. Per me è l’atto essenziale perché è il Signore che ti coinvolge nel suo sacrificio d’amore e ogni volta che mangiamo questo pane e beviamo questo vino avviene un contatto. Non vedo la fede come un insieme di verità ma come una vita che esprime verità e presuppone una relazione. È una chiamata di Dio a mettermi in contatto con Lui. Una relazione che non ha fine, non ha regole, non ha punti che non si possano superare, non rientra in uno schema. L’altra preghiera che mi piace è il rosario: ne recito due al giorno, uno al mattino e uno al pomeriggio. Poi ho la meditazione del breviario, la preghiera dell’orante biblico, che ti porta dentro con la certezza che è lo Spirito che prega in noi. Sono convinto che chi non prega non solo non capisce, ma non capisce di non capire».

Ti capita mai di avere voglia di ritirarti e di vivere solo nella preghiera?

“No, perché non lo capirei da solo. Data la mia persona, non potrei pregare e non sentire il grido dei figli di quel Padre che prego». Citi spesso la Madonna. Cosa ti colpisce di lei? “Lei è una rivoluzionaria. Lei è il genio della maternità, che si realizza ai piedi della croce. Credo che questo dono totale di sé passi attraverso la rinuncia, lo svuotamento di sé affinché l’altro possa esistere. La comprensione piena e totale della Madonna nei confronti del Figlio è avvenuta ai piedi della croce. Questo mi impressiona molto”.

Cinquant’anni di sacerdozio. Come vede, sulla base della sua lunga esperienza, la figura del sacerdote oggi?

«Lo vedo espresso nelle parole di Gesù: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Il sacerdote è l’uomo del sacro e porta la risposta che va nel profondo del cuore dell’uomo. Ogni uomo ha bisogno di vedere Dio, ha bisogno di incontrarlo, di sentirlo compagno della sua vita. Solo questo rapporto vitale può soddisfare quella sete infinita che è dentro l’uomo, di quel “tutto” che non è contenuto nella realtà limitata. Il sacerdote è l’uomo del perdono, è l’uomo che crea la fiducia, che crea la base sicura. È la persona che prima di tutto deve vivere in sé ciò che porta, perché il cristianesimo non è un’ideologia ma una persona, Cristo, e la morale cristiana non è un insieme di regole ma una relazione di amore. Solo il sacerdote può portare pienamente quel bisogno di appartenenza che esiste dentro ogni uomo. Dove c’è l’uomo, deve esserci il prete. Non può chiudersi nelle sagrestie, deve uscire dai suoi palazzi, deve essere segno che sta orientando un cammino. In altre parole deve essere come Gesù, deve donare non solo il Vangelo ma, come dice san Paolo, anche la sua vita, perché i suoi fratelli gli sono diventati cari».

Article written by Alessio Zamboni and Nicoletta Pasqualini published on Semper news

 
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