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A volte ci sono notizie che offrono molta speranza. Ma vanno presi con le pinze. Perché dalla semplice lettura di uno studio scientifico, che contiene anche un’indicazione di grande importanza, può essere difficile passare alla realtà pratica. Occorre quindi osservare con grande attenzione lo studio apparso su Acta Neuropathologica in cui si descrive l’identificazione di un gene capace di ridurre il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer fino al 70%.

L’osservazione ha una grande importanza scientifica, ma difficilmente diventerà nel breve termine la base per cambiare qualcosa nell’approccio alla malattia. Insomma, ci vorrà del tempo per pensare ad un utilizzo pratico di questa scoperta. E soprattutto non si può immaginare che questa constatazione permetta di erigere uno “scudo” per tutte le persone destinate ad ammalarsi. Per questo è importante continuare a concentrarsi prevenzione classica del deterioramento cognitivo.

Cosa succede in chi soffre di Alzheimer e quanti sono i malati

Pensiamo a una nebbia che pian piano avvolge il cervello e smorza la capacità delle cellule di interagire, portando via ricordi, affetti e più in generale la memoria. Qui, attraverso la progressiva perdita dei neuroni e delle loro connessioni, Il morbo di Alzheimer porta al declino cognitivo, che si verifica a causa dell’accumulo di proteina beta-amiloide, proprio questa nebbia, che danneggia i neuroni. Anche perché non è sempre, e non solo, il morbo di Alzheimer a determinarlo. Secondo quanto riporta l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), più di un milione di persone in Italia si tratterebbe di una forma più o meno grave di deterioramento cognitivo. E sarebbero in giro 600.000 pazienti con il vero morbo di Alzheimer.
Attenzione: non commettere l’errore di considerare che questa patologia colpisca solo chi ne soffre. In qualche modo, infatti, sempre in base a quanto riportato sul portale Epicenter dell’Iss, considerando il totale delle demenze sarebbero circa tre milioni i soggetti nel nostro Paese impegnati nell’assistenza a chi è malato.

Cos’è il gene protettivo e come funziona

La variante genetica con attività protettiva è coinvolta nella produzione di un particolare componente che entra in gioco nella formazione dell’ barriera emato-encefalica. Questa sorta di “checkpoint”, come un vero e proprio valico di frontiera, ha il compito di impedire il passaggio di sostanze, virus o batteri potenzialmente nocivi dal sangue al cervello. In pratica, quindi, la variante genetica che codifica per l’ fibronectina (questo il nome della sostanza ritrovata in questa forma di “frontiera” biologica), contribuirebbe a creare unpulizia ottimale del sistema nervosofavorendo così il miglioramento dell’ambiente in cui opera.

IL gene che può essere considerato uno sorta di “scudo” protettivo. per il cervello è stata individuata dagli esperti della Columbia University, analizzando il patrimonio genetico di circa 11.000 persone. Ma non è abbastanza. Oltre a identificare il piccolo tratto di Dna, gli studiosi hanno provato anche a valutare cosa potrebbe diventare questo un bersaglio per nuove terapie, capace di avere un’azione simile a quella del gene stesso e quindi di mantenere il cervello “pulito” dalla beta-amiloide, una sostanza che si accumula, proprio come le scorie, avvolgendo progressivamente i neuroni. Inoltre, la fibronectina tende generalmente ad aumentare in modo significativo nei soggetti affetti da malattia di Alzheimer. La variante genetica che fa da “scudo” potrebbero impedire questo accumulo. Al momento gli studi sono stati condotti solo su modelli di laboratorio. E la teoria sembra reggere, facendo sperare in una cura che non appare certo dietro l’angolo.

Quanto è importante la genetica nella malattia di Alzheimer

Le stime dicono che in media 10% dei casi La malattia di Alzheimer sembra avere un percorso genetico specifico. Soprattutto non va considerato che forme di demenza di questo tipo colpiscono esclusivamente persone molto anziane. O meglio: il rischio appare associato all’avanzare dell’etàma la carta d’identità non può essere considerata l’unico parametro da tenere presente.

In questo senso Amalia Cecilia Bruni, allora Presidente della SINdem (Società Italiana di Neurologia della Demenza), qualche tempo fa raccontava come esistono, anche se molto rare, forme giovanili di demenza (Demenza ad esordio giovanile o YOD). La prevalenza di queste forme aumenta con l’età: tra 30 e 34 anni si contano 6 soggetti su 100.000, tra 34 e 64 sale a 119 su 100.000 e arriva a 853 su 100.000 tra 60 e 64 anni”. Ovviamente queste forme possono manifestarsi in modo diverso rispetto alle classiche patologie della vecchiaia.

“I quadri clinici in queste forme sono prevalentemente atipicospesso con conseguenti disturbi psichiatrici rischio di essere spesso diagnosticati erroneamente – è il parere dell’esperto. Una quota non trascurabile ha una componente metabolica importante come la malattia di Niemann Pick tipo C, una forma tipicamente infantile che presenta però anche forme Late Onset che ricadono in YOD. La situazione è diversa nel Demenza a esordio tardivo, dopo i 65 anni, anche se l’allungamento della vita ha permesso di comprendere che anche in questo gruppo esiste una forte eterogeneità e che esistono forme particolari nei più anziani-anziani (>80 anni), identificate solo da studi neuropatologici. La malattia di Alzheimer è certamente la forma più diffusa di demenza, ma identificare le cure, nonostante i recenti progressi, è estremamente difficile”.

Le diverse “malattie” di Alzheimer.

La malattia di Alzheimer può iniziare come processo biologico nel cervello venti o più anni prima della comparsa dei primi sintomi. Questo è ormai noto da studi condotti proprio su soggetti presintomatici portatori di mutazioni genetiche. Questo è il grosso problema in termini di cura: anche stabilire una terapia all’esordio potrebbe rivelarsi poi una misura tardiva l’esordio dei sintomi non corrisponde alla vera insorgenza della malattia e va considerato piuttosto come il momento in cui il cervello non riesce più a compensare la malattia, un po’ come il vaso che trabocca quando è stato riempito da tempo. Lo stesso esperto spiega come non siamo affatto certi che il quadro che si manifesta nell’Alzheimer genetico sia lo stesso osservato nell’Alzheimer “sporadico”. Non ci sarebbe quindi il morbo di Alzheimer ma probabilmente bisognerebbe parlarne Malattie di Alzheimer (diverse per localizzazione e tipo di proteine ​​aggregate).

Una formula matematica per la prevenzione

Andiamo oltre la genetica. Il cervello è una struttura plastica in continua evoluzione e modulazione nel corso della vita ed è quindi sensibile agli interventi che, anche dall’esterno, possono riflettersi sulla genetica, sul metabolismo e sulle connessioni neurali. In questo senso può essere riproposto una semplice formula matematica da ricordare: 12 volte 40. Questa è un’informazione utile per prevenire le difficoltà cognitive in età avanzata, primo fra tutti il ​​morbo di Alzheimer. Se riusciamo a controllare con le giuste abitudini gli elementi che possono potenzialmente favorire l’insorgenza di questi disturbi, infatti, possiamo ridurre fino al 40 per cento il rischio di sviluppare questo tipo di disturbi.

I 12 fattori di rischio

Il rapporto proviene da un documento della Lancet Commission on Dementia Prevention, Intervention and Care. A parte la complessità scientifica delle informazioni, vale la pena ricordarlo i dodici fattori di rischio su cui possiamo agire preventivamente: a partire dall’ipertensione, dall’obesità, dal fumo, dal diabete, dalla scarsa attività motoria, dall’abuso di alcol. Passa attraverso il reale elementi medici, come la perdita dell’udito, considerata particolarmente significativa tanto da diventare in termini di “peso” statistico l’elemento in cima alla classifica, seguita da depressione, trauma cranico e abuso di alcol. Infine, occorre prestare attenzione asfera sociale dove vivono le persone: isolamento, scarsa istruzione e inquinamento ambientale.
Secondo gli esperti non “sentirsi” come si dovrebbe significa aumentare notevolmente i rischi. Occorre prestare attenzione anche ainquinamento, anche se le ricerche per valutare la correlazione tra i due elementi sono state condotte prevalentemente su animali. Secondo gli studi, infatti, l’esposizione agli inquinanti particellari presenti nell’atmosfera accelera i processi neurodegenerativi. E, come se non bastasse, il diossido di azoto figlio dei tubi di scappamento quando in alte concentrazioni potrebbe essere, secondo la scienza, associato ad un maggior rischio di sviluppare demenza.
Intendiamoci: parliamo solo di rischi più elevati che sarebbe meglio contrastare.

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