ma non sarebbe meglio lasciarli riposare in pace? – .

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Una volta, parlando con Werner Herzog, gli ho chiesto qualcosa su Klaus Kinski, e Werner, che raramente dice la cosa sbagliata, ha risposto molto educatamente: “Sai, penso che sia giunto il momento di lasciare che Klaus riposi in pace”. Un modo elegante per dirmi che non dovevo rompermi i coglioni su qualcosa che era stato ampiamente dibattuto a sproposito. E su cui lo stesso regista aveva detto l’ultima parola con il bellissimo documentario dedicato al suo attore amico-nemico Kinski, il mio più caro nemico. Se non l’avete visto dategli un’occhiata, spiega tante cose sul cinema e sulla creazione artistica.

Le parole di Herzog dovrebbero applicarsi alle rock star che muoiono prematuramente e vengono poi trasformate in miniere d’oro per eredi e pretendenti. Prima tirava fuori semplicemente i nastri che aveva registrato accidentalmente mentre cantavano sotto la doccia. A causa dei Queen e dell’enorme successo di Bohemian Rhapsodyun film con lo stesso fondamento di verità di Sharknado, da qualche anno anche il cinema ha cominciato a costruire ponti d’oro per avere film autorizzati direttamente dalle famiglie, come se questa certificazione rendesse le opere migliori a priori. Non è così, sia chiaro, ed è curioso che l’unica opera di questo genere che abbia una dignità e una sincerità tangibili sia quella avallata e sostenuta da qualcuno che è ancora vivo, Elton John, ed è anche quella questo è stato meno considerato, anche se era anche molto buono.

Dopo Freddie Mercury arrivò un giovane David Bowie, quello interpretato da Johnny Flynn in Polvere di stelle, un film senza una sola canzone del Duca Bianco. E poi Aretha Franklin, Whitney Houston, ovviamente Elvis, Bob Marley. E il futuro riserva Michael Jackson (interpretato dal nipote), Chalamet nei panni di Bob Dylan, quattro film sui Beatles, uno ciascuno, quello sui Bee Gees (ci aveva cominciato John Carney, che poi aveva deciso di abbandonarlo, e questo non è un buon segno) e tanti, troppi altri.

Il presente è Ritorno al nero, l’atteso film biografico su Amy Winehouse, interpretata da Marisa Abela, un’attrice britannica poco conosciuta ai più che con naturalezza ha cercato di sfruttare al meglio l’occasione della sua vita, trasfigurandosi nella talentuosa ragazza di Camden che in pochi anni aveva conquistato il mondo con la sua musica e la sua voce. Diretto da Sam Taylor-Johnson, che si era già cimentato nel genere nel 2009 con Ragazzo vagabondo il racconto degli anni giovanili di John Lennon, un film che viene ricordato più perché sul set conobbe il suo futuro giovane marito Aaron Taylor-Johnson (23 anni di differenza, lui aveva 19 anni quando si incontrarono) che per il servizio reso agli ex Beatles.

La regista ha detto di voler raccontare la storia di Amy attraverso un’autobiografia che, secondo lei, è stata poco considerata: le sue canzoni. Fermo restando che la dichiarazione prende i suoi tempi, è vero che la sofferenza era tutta nelle parole cantate da quella voce davvero unica e scomparsa. Quello che ne viene fuori, secondo Taylor-Johnson e lo sceneggiatore Matt Greenhalgh, è il ritratto di una ragazza che voleva solo essere amata, avere una vita normale con un uomo al suo fianco, figli da crescere e le proprie canzoni da scrivere quando avrebbe è stato ispirato. Purtroppo, allo stesso tempo, era anche una personalità autodistruttiva, la cui fragilità veniva ulteriormente esacerbata dai media britannici, che assediavano continuamente la sua casa sperando di poterla fotografare ubriaca, sotto l’effetto di droghe, magari sanguinante dopo un litiga con il suo ragazzo e poi con il marito Blake Fielder-Civil. Il tutto mentre perdeva il più grande amore della sua vita, sua nonna Cynthia Levy.

Foto: Dean Rogers/Focus Features

A scanso di equivoci, Amy non era un gioiello nato nel fango, ma cresciuto a pane e jazz fin da piccola da una famiglia di musicisti, cosa che faceva particolarmente piacere ricordare al padre Winehouse, qui visto come un genitore amorevole che ha fatto di tutto per salvare sua figlia. Confrontando questo film con il documentario premio Oscar di Asif Kapadia, sorge qualche dubbio che la verità sia almeno da qualche parte nel mezzo. Ma in realtà il film è autorizzato dalla famiglia, che è il luogo in cui solitamente si lavano i panni sporchi.

Ritorno al nero paragona la triste vita di Amy Winehouse a quella di Lady Diana Spencer, donne infelici, perseguitate dalla bulimia e dai paparazzi, che vedono nel padre la stella polare. Amy ha anche la responsabilità di non avere giustificazioni per essere quello che è, l’alcol è stata la sua dipendenza e la sua fuga da quella realtà che tanto la feriva. In breve, non le viene data una degna sepoltura. L’interpretazione di Marisa Abela, come quelle di tanti altri che si cimentano nel ruolo della rock star, ricorda più una performance di Spettacolo così e così. Il povero Jack O’Connell, attore di grande talento che meriterebbe opportunità ben migliori di questa, è bravo nel ruolo dell’amore della sua vita Blake, che però passa prima come uno squallido opportunista e poi come un uomo sopraffatto dalle dipendenze della donna. È a dir poco bizzarro vedere un film diretto da un regista che fa sembrare gli uomini molto migliori di quello che probabilmente sono. E che oltretutto dimentica, o meglio evita di ricordare, altre situazioni, come la relazione con Alex Clare, che ha contribuito a creare la leggenda negativa della donna maledetta ad uso e consumo dei tabloid. Tuttavia, il legame che Amy aveva con i suoi musicisti è stato totalmente cancellato, per non parlare del duetto con Tony Bennett, qualcosa su cui Lady Gaga ha costruito la sua rispettabilità.

Foto: Dean Rogers/Focus Features

In breve, di Ritorno al nero rimane solo una cosa nella memoria, e cioè ovviamente la musica, ma che c’era già prima. Il resto è meglio dimenticarlo. E Amy, come direbbe Werner Herzog, è ora che riposi in pace.

 
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