“Il mio lavoro nell’ospedale di Rafah, dove ogni giorno sento le urla disperate dei bambini feriti” – .

Conflitto israelo-palestinese

24 aprile 2024

17:21

La testimonianza da Rafah di Davide Musardo (Medici Senza Frontiere): “Il nostro ospedale si trova nel cuore della città. Nella confusione del reparto pediatrico sento delle urla, sono per lo più urla disperate”.

Mentre, secondo i media internazionali, l’esercito israeliano è pronto ad entrare in a Rafa che considera l’ultimo bastione di Hamas a Gaza, arriva Fanpage.it proprio dalla città a sud della Striscia la testimonianza di Davide Musardo, che è lì insieme a Medici Senza Frontiere:

“Il suono incessante dei droni e delle esplosioni ci sveglia ancor prima dell’alba. Seguono i suoni cupi e non troppo lontani dei bombardamenti aerei e perfino di alcuni carri armati israeliani. Il pianto di un bambino è un chiaro segno di questo brusco risveglio e della sua naturale paura di rivivere ancora una volta una notte di terrore.

Mentre ci prepariamo a raggiungere il nostro ospedale, i nostri pensieri corrono ad immaginare i volti delle persone colpite, il loro dolore, la loro perdita.

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Siamo a sud della Striscia di Gaza, a Rafah per la precisione, una piccola città che un tempo ospitava circa 250.000 persone e che ora ne ospita più di un milione e mezzo in fuga dai Paesi colpiti e in cerca di rifugio. Le strade sono piene di tende, piccole baracche dove la gente cerca di racimolare qualche soldo per sfamare la propria famiglia. Le code ai punti di raccolta dell’acqua sembrano infinite. I bambini corrono scalzi per le strade polverose, alcuni sono intenti a trasportare carretti improvvisati con dentro una tanica d’acqua. Altri cercano i nostri sguardi dentro le nostre auto, un cenno, un saluto, un piccolo gesto di umanità.

Il nostro ospedale si trova nel cuore della città, ed è evidente un via vai di persone che accorre per sostenere i propri cari ricoverati nei nostri reparti. I letti sono tutti occupati, giovani, anziani, ragazze e ragazzi con i volti stanchi. Hanno ferite sulle mani, sulle braccia, sulle gambe, sul viso. Alcuni hanno subito un’amputazione, altri hanno bisogno di un tutore esterno per sistemare la frattura causata dall’impatto esplosivo. Il dolore si sente nelle loro espressioni. E non è solo dolore fisico.

Ognuno di noi ha una storia, una storia troppo triste per essere raccontata. Genitori che hanno perso i propri figli e figli che hanno perso i propri genitori, sorelle e fratelli… Ad ogni approccio, alla solita domanda su come stai oggi, tutti rispondono “Kullu tammam, Alhamdullah” (va tutto bene, grazie a Dio) e poi ritornando ai loro volti cupi e volendo condividere con voi le foto dei loro figli, o l’ultima foto tra mamma e papà, per non aver avuto il tempo di salutarli, di proteggerli e, certamente, di non dimenticarli.

Nella confusione del reparto pediatrico sento delle urla, sono per lo più urla disperate. Vedo il viso dolce di una bambina di circa 10 anni, segnato dalle lacrime. Lei gira per la stanza e la mia interprete mi riferisce che urla a tutti che non riesce a respirare. È in pieno attacco di panico e sembra non esserci modo di calmarla. Il dolore fisico delle ustioni, di cui soffre la parte superiore del corpo, innesca inevitabilmente una ferita psicologica legata ai vissuti traumatici di atroci violenze.

L’equipe del reparto di Salute Mentale riesce ad intervenire nel miglior modo possibile e la piccola comincia subito a controllare meglio i suoi attacchi di panico, facilitando così tutte le sedute di bendaggio e le cure mediche necessarie. Ora chiamiamo il suo medico perché sta quasi imparando a gestire i suoi attacchi, attraverso il gioco, la proiezione del ruolo e la comprensione del suo dolore. Certamente non è semplice e richiederà tempo e cure adeguate così come avrà bisogno di un cessate il fuoco permanente, in cui possa riprendere la sua vita, i suoi giochi e, perché no, i suoi sogni… come quello di diventare medico quando sarà Grande.”

 
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