in caso di accordo Tel Aviv promette di non attaccare Rafah – .

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Il destino di Rafah è appeso al filo della proposta di accordo avanzata da Israele che Hamas sta studiando e alla quale, ha annunciato, risponderà. Ma se non ci sarà un accordo per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, l’esercito entrerà nella città più meridionale della Striscia. Una corsa contro il tempo e sul filo del rasoio, dato che l’operazione di terra dell’IDF sembra ormai alle porte, nonostante le centinaia di migliaia di sfollati palestinesi stipati a Rafah. Ma l’operazione nella città al confine con l’Egitto e la furiosa battaglia che ne seguirà potrebbero avere un costo anche per i circa 130 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Proprio oggi la fazione islamica ha diffuso un nuovo video in cui due di loro – Keith Siegal e Omri Miran – chiedono al governo di Benjamin Netanyahu un accordo immediato per la loro liberazione.

L’appello disperato ha rinvigorito le proteste contro l’esecutivo Netanyahu, con il Forum delle famiglie dei rapiti che chiedono al governo di fare una scelta: «Rafah o gli ostaggi. Scegli quest’ultimo.”

«Abbiamo ricevuto – ha detto Khalil al-Hayya, vice capo del braccio politico di Hamas a Gaza – la risposta ufficiale alla proposta di cessate il fuoco, consegnata ai mediatori egiziani e del Qatar il 13 aprile. Il movimento – ha aggiunto – lo studierà e, successivamente, darà una risposta”. Un momento in cui Hamas deve confrontarsi anche con le altre fazioni palestinesi di Gaza, la Jihad islamica e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, anch’essi coinvolti nell’attentato del 7 ottobre.

Israele aspetta ma è chiaro che considera la controproposta “l’ultima possibilità” prima di entrare a Rafah e forse anche nel `Corridoio di Filadelfia’, la stretta zona cuscinetto che corre lungo il confine tra Gaza e l’Egitto e che il Cairo considera tale intoccabile. Ma l’operazione a Rafah rischia anche di creare conseguenze sui già tesi rapporti di Israele con l’amministrazione americana. Biden, secondo quanto scritto da Thomas Friedman sul New York Times, potrebbe anche considerare di tagliare la vendita di alcune armi allo Stato ebraico, recentemente decisa. Le ragioni sono molte: non solo che l’operazione a Rafah potrebbe rovinare la possibilità di un accordo. Ma anche «la formazione di una forza araba di mantenimento della pace che possa sostituire l’esercito israeliano a Gaza, in un accordo diplomatico sulla sicurezza tra Israele, Arabia Saudita, Stati Uniti e palestinesi e, infine, l’unione degli Stati arabi moderati e degli alleati europei in una coalizione contro le minacce missilistiche dell’Iran”.

Il tema di Rafah e della crisi umanitaria a Gaza sarà sul tavolo anche di un incontro a Riad, a margine del World Economic Forum (WEF), tra il presidente palestinese Abu Mazen, il segretario di Stato americano Antony Blinken e le principali autorità internazionali funzionari. «A Riad abbiamo gli attori chiave e speriamo – ha detto il presidente del Wef, Borge Brende – che le discussioni possano portare a un processo verso la riconciliazione e la pace».

Azione militare a Rafa è anche fonte di spaccatura all’interno del gabinetto di sicurezza israeliano. Con una tensione che cresce di ora in ora come dimostra l’ultimo episodio relativo all’annuncio da parte del capo dell’IDF Herzi Halevi della resa di “centinaia di terroristi a Gaza”. “Non avremmo potuto ucciderne alcuni?” ha tuonato il ministro della Sicurezza nazionale e falco della destra, Itamar Ben Gvir. Un’uscita duramente attaccata dallo stesso Halevi e da altri funzionari governativi.

 
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