Tumori, pochi interventi nei piccoli ospedali del Lazio: “Così aumenta le recidive”

Tumori, pochi interventi nei piccoli ospedali del Lazio: “Così aumenta le recidive”
Tumori, pochi interventi nei piccoli ospedali del Lazio: “Così aumenta le recidive”

Sono quattro gli ospedali del Lazio che, più di altri, sono al centro della lotta ai tumori. Più della metà degli interventi chirurgici per la lotta al cancro vengono eseguiti in queste strutture. Secondo i dati del Piano nazionale risultati del Ministero della Salute, la parte del leone la fa il Policlinico Gemelli. Solo nel 2020 gli interventi sono stati 5.269 sui 18.548 nell’intero Lazio (28,41%). E questo ospedale è all’avanguardia nel cancro al cervello, al colon, al retto, al fegato, al seno, alle ovaie, al pancreas, allo stomaco, alla tiroide, all’utero e all’esofago. Al secondo posto nella classifica generale c’è l’Istituto Regina Elena (10,21% del totale), primo per interventi al cavo orale e laringe, reni e vescica. Seguono l’Umberto I (con il 7,93% dei casi trattati in sala operatoria) e il San Giovanni (con il 6,9%).

LE PRIORITÀ

In sostanza, la chirurgia oncologica nel Lazio è concentrata in (poche) grandi strutture. E, d’altro canto, ci sono diverse piccole aziende che realizzano interventi che, se tutto va bene, avvengono una volta al mese. Fanalino di coda l’ospedale di Bracciano, che nel Pne 2021 ha contato sei interventi in un anno: uno per un malato di tumore allo stomaco e sei per un tumore al colon. Tivoli segue, ma si ferma a diciannove: undici al colon, uno al retto, quattro alla prostata, due allo stomaco e uno alla tiroide. E poi l’Idi con 22 interventi in un anno (quindi circa due al mese). Gli ospedali della Città metropolitana e delle province del Lazio sono nella parte bassa della classifica: tra questi Colleferro, Cassino, Terracina, ma anche Ostia, Formia, Frosinone, Rieti. Ieri dalle colonne del Messaggero l’oncologo Francesco Cognetti, coordinatore del Forum delle società scientifiche e dei clinici ospedalieri e universitari italiani nonché presidente della Foce, la confederazione degli oncologi, cardiologi ed ematologi, aveva sottolineato la necessità di uno sviluppo più omogeneo delle reti oncologiche in Italia. L’obiettivo si basa su un principio semplice: gli esiti migliori per i pazienti esistono dove c’è esperienza, dove il personale si trova continuamente, praticamente ogni giorno, di fronte a casi clinici complessi ma comunque legati alla stessa patologia. E così diminuisce il rischio di ricadute. «Sono poche le strutture che hanno una maggiore concentrazione di casi e poi c’è un numero enorme di ospedali che sono al di sotto degli standard minimi indicati dalle evidenze scientifiche internazionali – spiega Cognetti – Questi lavori dimostrano che i tumori devono essere trattati chirurgicamente solo nelle istituzioni dove esistono sono volumi sufficienti Da questo dipende la prognosi”. La scienza dice, quindi, che è necessario un sistema diverso. 19 ospedali che effettuano interventi di tumore al seno, 25 per tumore del colon-retto, 15 per tumore della prostata, 14 per tumore del pancreas, 12 per tumore del fegato, 16 per tumore dell’ovaio sono al di sotto del minimo stabilito dalla letteratura scientifica. Il polmone sta bene: interventi in sette ospedali, tutti sopra il minimo. Ma anche alcuni istituti che sono ai vertici hanno bassi volumi di interventi quando si tratta di alcuni interventi, come l’Irccs Regina Elena sotto quota per colon retto, pancreas, stomaco ed esofago. «Quando si parla di tumori si parla di patologie che negli ultimi anni hanno avuto un enorme miglioramento della prognosi: è aumentato il numero delle persone che sopravvivono più a lungo, di quelle che guariscono e sono aumentati i pazienti che , anche se metastatici, hanno un’aspettativa di vita superiore a quanto accadeva quindici o venti anni fa. Per combattere i tumori la prima strada da seguire è legata a corretti stili di vita che riducono l’incidenza dei casi di circa il 40%. C’è poi la diagnosi precoce che avviene soprattutto grazie allo screening. Il terzo pilastro è legato all’inizio precoce del trattamento chirurgico. Quarto e ultimo punto è la capacità di offrire al paziente il massimo delle cure unito alle sinergie di tutti i diversi specialisti”.

«Ci ​​sono grandi ospedali che hanno tutto dentro e altri che dovrebbero invece essere messi in rete con i principali ospedali, con un sistema “hub and speak” – conclude Cognetti – Serve quindi una rete con i principali ospedali (gli hub) che possano anche essere definita sulla base di aree ampie che dovranno disporre di tutti i servizi e le specialità. Poi altri minori (i raggi) che contribuiscono al successo. Quando un paziente si presenta in queste ultime strutture deve trovarsi davanti ad una tavola che possa prendersi cura di lui e che collega la struttura hub con quelle a raggi. Nel Lazio servono quattro o cinque hub, ma devono avere al loro interno tutti i servizi clinici necessari, ma anche la componente di ricerca, laboratori, patologia molecolare potenziata, nonché strutture per le cure palliative. Ciò, purtroppo, ancora non avviene. Se vent’anni fa tutto questo non era così indispensabile, oggi con il miglioramento dei risultati è invece un percorso necessario e obbligato perché da esso dipendono tante vite umane”.

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Il Messaggero

 
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