«Tutto è iniziato da un Brunello» – .

Riccardo Uggeri di Maleo è un vignaiolo, con un illustre passato familiare nella zona, e un futuro che potrà sicuramente riservargli delle belle sorprese. Ci incontriamo in un bar di Castiglione d’Adda, a metà strada per entrambi. Mi colpiscono i suoi modi: naturalmente perfetti, un’educazione che ha uno stampo diverso da quello a cui sono abituato: sono così i signori? Ha gli occhi verde molto chiaro. Mi sono dimenticato di chiedergli a quale prodotto vitivinicolo si riferirebbe per descrivere un colore così bello e particolare. Faccio un azzardo, ma è facile: l’uva Verdeca pugliese?

Riccardo, parliamo prima del ristorante che ti è appartenuto? Lo storico Leon D’Oro di Maleo!

«Con piacere, essere figlio di due ristoratori, Ernestino Uggeri e Maria Grazia Galloni, è stato per me un privilegio. Il ristorante appartiene alla nostra famiglia dal 1959 e fu mia nonna Teresina Rossi ad aprirlo. Mia nonna la gestiva fino al 1978: a quei tempi era la classica osteria, quella con il gioco delle bocce, il consumo del vino ma in realtà anche la produzione perché mio nonno faceva vino, acquistando l’uva nell’Oltrepò Pavese; al cliente venivano offerti anche alcuni piatti. Poi per anni la gestione è stata divisa tra mia nonna, mia zia Mari Luisa, sorella di mio padre, e i miei genitori”.

Quando è diventato quel famoso ristorante che tutti ricordiamo con nostalgia?

«Nel 1984 il locale si ristrutturò e divenne un vero e proprio ristorante di fama nazionale, per lungo tempo ricevette menzioni dalle maggiori riviste specializzate del settore enogastronomico, e furono tante le grandi soddisfazioni».

Chi ha dato questa svolta?

«Mio padre Ernestino diede un forte impulso alla qualità, nel 1978 partecipò al primo corso in Lombardia per sommelier, fu tra i primissimi soci dell’associazione nella regione. Ebbe la genialità di investire nella cantina, la fece scavare proprio sotto il ristorante per meglio conservare il vino e la riempì all’inverosimile. Dal 2001 mia madre ha ripreso in mano la cucina, con assistenti chef. Un nostro piatto? Sicuramente le lumache in umido e anche il rognone di vitello, almeno per me”.

Cosa colpiva di quel posto, al di là della qualità indiscutibile del cibo?

«Secondo me il Leon D’Oro esprimeva un vero senso della famiglia, questo legame forte di mia nonna con mia sorella Federica. Papà poi ha sempre posseduto una capacità istrionica davvero notevole”.

«Abbiamo chiuso a dicembre 2021, ma è stata una decisione già presa tempo fa. Il Covid ha influito? Assolutamente no, anzi abbiamo aspettato che la pandemia allentasse la sua morsa per salutare i nostri clienti in una situazione di normalità. Mia sorella vive a Milano e lavora in uno studio commercialista, io ho scelto di occuparmi esclusivamente di vino, mio ​​padre è alla soglia dei settant’anni e fa fatica fisicamente, era davvero arrivato il momento, anche se a malincuore, di dire basta”.

Quando hai deciso di dedicarti ai vini?

«Ho anche la data precisa: 15 novembre 2002, mio ​​diciassettesimo compleanno. Mio padre stappò una bottiglia di Brunello di Montalcino Gianfranco Soldera dell’annata 1982, anche se io sono dell’anno successivo ma in quella stagione non c’era una buona produzione di vino; assaggiandolo, l’ho trovato così buono, così unico, che ho subito capito che da quel momento il percorso per comprendere il vino sarebbe stato mio”.

Quindi eri un tipo determinato già da adolescente?

«In realtà da ragazzo ho fatto fatica, a scuola per esempio ero un disastro: ci mettevo sette anni per finire il liceo, non facevo nessun progresso, finché non ho trovato la meta, poi tutto è cambiato: mi sono diplomato con a pieni voti e si iscrive al corso di laurea in Viticoltura ed Enologia di Piacenza. Nel frattempo lavoravo nel ristorante di mio padre come sommelier perché ero iscritto all’associazione Aspi. L’anno dopo la laurea, quindi nel 2010, ho iniziato a lavorare per un’azienda vitivinicola sui colli piacentini, fino al 2014″.

Cosa fa esattamente un sommelier?

«È uno specialista del servizio, il suo ruolo si esercita nella struttura operativa del personale di sala di un ristorante: il suo servizio, la sua competenza, la sua conoscenza se volete, sono ad esclusivo vantaggio del cliente. Oggi questa figura ha anche un ruolo amatoriale per chi ha la passione del vino, ma questo degrada il professionista a commerciante. Inoltre, i suoi compiti sono cambiati rispetto alle origini: spesso un sommelier viene assunto da un’azienda vinicola affinché possa promulgare la filosofia dell’azienda che lo assume”.

E dopo il 2014, cosa è successo riguardo alle tue scelte professionali?

«Già l’anno prima avevo maturato il desiderio, nel tempo libero che mi restava, di dedicarmi ad una selezione di vini. E da qui è maturata l’idea di avviare una mia attività di distribuzione di vino all’ingrosso.”

Riccardo, sai cosa ha detto il grande Gianni Mura? Quel pesce può essere abbinato al vino rosso!

«Ti sorprende? Personalmente sono assolutamente d’accordo. Ad esempio, il merluzzo si sposa perfettamente con esso. Anche il polpo lucano, condito con una salsa importante. Con i gamberi, dici? Assolutamente no, perché questi richiedono acidità e un carattere aromatico diverso. Insomma, ci sono vini adatti e altri no, perché la sensorialità del pesce va salvaguardata. Il vino però non deve avere una grande struttura tannica, cioè avere poca astringenza: per capirci, un Nebbiolo sarebbe complicato da abbinare. Mentre qualcosa che provenga dall’uva Schiava è assolutamente consigliabile. Come un Piedirosso campano avrebbe il suo successo con il pesce.

È meglio un bicchiere con un piatto di cibo o una buona degustazione fatta a stomaco vuoto?

«La migliore espressione del vino è nel contesto della cucina: e nel berlo non devono mai essere dimenticate le caratteristiche territoriali e umane delle persone che vivono in quella zona, cioè deve essere inserito nel contesto culinario della zona in cui viene prodotto. Poi certo che un Amarone, un Gran Barolo invecchiato 20 anni a volte ha senso berlo puramente in degustazione, anche senza abbinamenti gastronomici”.

Il vino calma la solitudine? Una volta era così…

«Durante il lockdown ho svuotato la cantina, come tutti credo. Lenisce perché, in fondo, il vino è espressione di un concetto superiore: racconta da chi è fatto, rivela la storia di chi lo produce, il lavoro delle viti, e ogni forma di racconto, anche indiretto, lenisce la solitudine.”

«Scelgo con cura i vini di 35 cantine: una dozzina importati da Francia, Grecia e Armenia, e le altre italiane. Prendo e vendo a ristoranti, enoteche e bar”.

«L’Armenia è un luogo dove i vitigni autoctoni sono gli stessi ormai da seimila anni, con tecniche di produzione ancora primordiali: impossibile non ripartire da lì».

E la rosa? È un parente povero del rosso o del bianco?

«Povero parente? Non lo è, assolutamente no! Anche se riconosco che in Italia è quasi declassato, mentre nella vicina Provenza ne fanno un grande uso; in realtà offre le caratteristiche sapide di freschezza e bevibilità che dona un bianco, ma con le sfumature aromatiche del rosso. Inoltre ci si può divertire con gli abbinamenti.”

Riccardo hai meno di quarant’anni, qual è il tuo sogno oggi?

«Sono istintivo, non un sognatore. Ma in futuro vorrei tornare a lavorare la terra, a mettere le mani nel vino, discorso che ho lasciato a metà. La fase di produzione è come a metà tra il sogno e il rimpianto. Ma non puoi fare tutto nella vita. O si?”.

 
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