la racchetta ieri e oggi – .

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29 giugno 2024, 06:50

7 minuti di lettura

PALERMO – Vent’anni fa Palermo si svegliò con le strade ricoperte di adesivi. Mesi di domande su chi ci fosse dietro. Poi, il mistero è caduto: erano gli attivisti del nascente comitato Addiopizzo. Due decenni dopo Vittorio Greco, che è stato l’ideatore dello slogan, riflette sulla lotta a Cosa Nostra.

All’alba del 29 giugno 2004su centinaia di piccoli adesivi bordati di nero affissi durante la notte nelle vie del centro, Palermo legge per la prima volta questo messaggio: Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità.

Quel giorno i telegiornali regionali si aprirono con questa notizia, mentre il prefetto convocò il comitato ordine e sicurezza pubblica per analizzare l’accaduto.

Siamo rimasti anonimi per quasi un anno perché volevamo che il gesto potesse essere replicato da chiunque ha condiviso la dichiarazione e perché avevamo un piano da sviluppare, inizialmente sotto il radar.

Il primo obiettivo era quello di creare un dibattito pubblico il più possibile ampio e profondo, per poi uscire allo scoperto e delineare la strategia che di fatto ha portato alla critica dei consumi antiracket, alle prime denunce e tutto ciò che avremmo mai potuto prevedere.

Ci chiamavano “gli aggressori”. Per un anno abbiamo continuato ad attaccare adesivi e fogli, producendo i primi documenti – veicolati attraverso la stampa e un sito web – con cui spiegavamo le ragioni del nostro agire.

Stavamo facendo un’analisi che coinvolgesse tutti, consumatori compresi, ma che facesse soprattutto leva sull’autostima, cercando di intaccare la falsa coscienza, l’ipocrisia, l’indifferenza, il cinismo e la rassegnazione.

Un anno di “guerriglia” comunicativa a bassa intensità nacque così ufficialmente il Comitato Addiopizzo. Come sono passati questi 20 anni? Cosa è cambiato 20 anni dopo?

Non ho la pretesa di fare un punto esaustivo della situazione per capire cosa fare oggi, ma perché ho creato quella frasecosì come sono stato io a redigere i primissimi documenti, Penso di poter ancora offrire qualche idea utileanche se non sono più un’attivista da nove anni, completamente “fuori dal giro”.

Mi interrogo e penso. Alla luce di questi ultimi vent’anni, Come interpretare i 31 commercianti accusati di favoreggiamento per essersi rifiutati di pagare i soldi dell’estorsione? Al di là delle condotte e delle responsabilità penali che saranno accertate, c’è un dato di fatto sul quale non possiamo fare a meno di interrogarci.

Qual è il contesto socioculturale da cui provengono? Quali e quanti livelli di responsabilità esistono oltre a quella dei diretti interessati? Quanti piani di analisi occorre collegare per comprendere appieno il fenomeno? Quale codice culturale esprime tale condotta?

Quale analisi bisogna fare per agire in una prospettiva di medio e lungo termine? La Città deve sentirsi chiamata in causa? E in quali termini? Esiste ancora un sano senso di appartenenza che può essere sfruttato per innescare dinamiche collettive di emancipazione?

Vent’anni fa ci ponevamo domande molto simili nel tentativo di comprendere la diffusione delle estorsioni e la coltre di silenzio e indifferenza che circondava il fenomeno.

Per trovare risposte più o meno convincenti si è sviluppato un ragionamento che si è progressivamente ampliato, individuando connessioni tra diversi livelli di analisi e di azione.

Nei suoi primi anni di vita, il movimento Addiopizzo crebbe e si sviluppò come una sorta di ragionamento corale, di discorso pubblico, con un repertorio sempre più complesso di pratiche che si collegavano tra loro: consapevolezza e responsabilità del consumatore; solidarietà tra operatori commerciali; assistenza alle vittime di estorsione e l’accompagnamento della denuncia; la responsabilità sociale dell’impresa e delle associazioni di categoria ad essa collegate; lo smascheramento dei codici culturali mafiosi e l’educazione ai valori della Costituzione; la credibilità e le responsabilità delle autorità pubbliche; la responsabilità sociale dei professionisti e la ricchezza di Cosa Nostra; la qualità del consenso e della libertà di voto; il desiderio di verità e il bisogno di giustizia; Common goods against Cosa Nostra.

Per circa un decennio questo modo di procedere ha consentito: eventi molto frequentati; la diffusione di una percezione sociale che riconosceva il disvalore del pizzo; diverse decine di imprenditori hanno accompagnato alla denunciacon processi in cui gli operatori economici che hanno intentato cause civili contro i loro estorsori sono stati più di quelli accusati di favoreggiamento; decine di scuole coinvolte; gli estorsori che evitano di presentarsi nei negozi che espongono l’adesivo Addiopizzo; un dialogo pubblico critico con le associazioni di categoria e la politica, con proposte ai candidati, a livello comunale e nazionale.

Per dire addio al pizzo è stato adottato un approccio sistemicorisultati concreti che hanno dato all’associazione la credibilità necessaria per convocare in un’aula magna di Ingegneria gremita alcuni candidati alle elezioni politiche del 2013, per presentare loro proposte di tutela giuridica dei beni comuni, linee guida per un reddito di cittadinanza, nonché per sollecitarli sui temi della scuola, del sistema carcerario, dei beni confiscati, dei segreti delle stragi del ’92-’93.

Le singole proposte non sono state sviluppate solo da noi, il nostro sforzo è stato quello di costruire un ampio consenso a sostegno di un approccio che consenta di collegare i diversi aspetti per ricercare soluzioni il più radicali possibile.

Dopo il primo decennio di attività, l’associazione scelse di concentrare le proprie energie su meno temi e questo approccio sistemico venne meno, come il grande seguito degli anni precedenti.

Perché ciò sia accaduto non è ciò su cui ritengo sia utile soffermarsi oggi, ma A mio parere, l’approccio sistemico è ancora quello più adatto per comprendere e affrontare il furto.

La grande difficoltà è costruire un ampio consenso a sostegno del discorso pubblico e delle politiche ispirate da un simile approccio. Per comprendere appieno la difficoltà di una simile impresa è necessario riflettere profondamente sull’affermazione di Borsellino: “Politica e mafia sono due poteri che vivono controllando lo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.

Credo che la politica vada intesa nel modo più ampio possibile, non è un argomento monolitico e non è certo limitata ai partiti. In questo modo, il fenomeno delle vittime di estorsione che sono o finiscono per diventare sostenitori di Cosa Nostra può essere visto sotto una luce diversa.

In molti territori la trattativa per raggiungere un accordo con il potere di Cosa Nostra è continua, è una pratica quotidiana, un modo di pensare e di agire.

Il silenzio è il segno culturale di questa continua negoziazioneche inizia nel territorio, tra i vicoli e le strade della città e attraverso la raccolta dei voti può arrivare, e spesso è arrivato, anche all’interno delle istituzioni, a più livelli.

Il commerciante che favorisce con il suo silenzio i propri estorsori lo fa perché attribuisce più valore al potere mafioso che a quello politicodella cui esistenza non nota sul territorio o, peggio ancora, di cui non riconosce il valore, anche perché ha visto negli anni diversi politici, soprattutto durante le campagne elettorali, negoziare un patto più o meno esplicito, fermo e duraturo con i mafiosi.

Nei territori in cui la campagna elettorale si svolge in presenza, Negoziando in base a esigenze, promesse, favori e privilegi, Cosa Nostra riesce facilmente a inserirsi nelle dinamiche clientelari, con pacchetti di voto che equivalgono a cambiali da incassare a tempo debito.

La scelta di negare la prova probatoria è frutto di un calcolo di costi e benefici fatto alla luce di queste dinamiche di potere.

In linea di principio ritengo giusto che le associazioni di categoria e il Comune si costituiscano parte civile nei confronti dei commercianti agevolatori. Ma se la loro opposizione alla condotta connivente e silenziosa si riduce a questo, gli imputati di turno si trasformeranno in capri espiatori, e la costituzione di parte civile diventa un rito di autoassoluzione ipocrita, senza alcuna conseguenza effettiva fuori dalle aule giudiziariedove i poteri che dovrebbero scontrarsi senza quartiere spesso non fanno altro che negoziare su più livelli, contrattare costantemente, affinché apparentemente tutto possa cambiare, affinché nulla cambi.

Queste dinamiche di potere si svolgono lungo una precisa linea di faglia. Da un lato c’è chi, a causa delle condizioni lavorative precarie, ha un’esistenza poco libera e dignitosa (art. 36!) o che, pur lavorando regolarmente, incontrano quotidianamente ostacoli di natura economica e sociale.

Sono coloro che vedono effettivamente limitata la loro libertà e la loro dignità sociale (art. 3!), e per questo sono convinti che non possa esserci uguaglianza e quindi devono scendere a patti – con un ruolo subordinato – con il potere che gli si para di volta in volta davanti, qualunque esso sia: mafioso, politico-clientelistico o politico-mafioso.

D’altra parte, ci sono circoli di cittadini che godono di privilegi più o meno grandi, che ricorrono al potere – anche mafioso se necessario – per difenderli o incrementarli. Cosa Nostra si muove lungo tutta la linea di faglia: sfrutta la povertà per accumulare potere e ricchezza, per aumentare così il proprio potere negoziale con i privilegiati, che da questo potere mafioso cercano il modo di ottenere vantaggi in termini elettorali, economici e sociali, possibilmente senza scendere a compromessi. troppo.

Certo, tutta la nostra realtà sociale non si sviluppa attorno a questa colpa, ma è lì che si gioca la partita. Poiché non siete un Popolo, diventate un Popolo.”

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29 giugno 2024, 06:50

 
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