«Sto male, ho uno dei tumori peggiori. Rai? Tutto finito, sono indignato. E il palazzo di viale Mazzini è pieno di amianto” – .

«Sto male, ho uno dei tumori peggiori. Rai? Tutto finito, sono indignato. E il palazzo di viale Mazzini è pieno di amianto” – .
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DiGiovanna Cavalli

Il giornalista, inviato Rai, rivela di essere malato e di avere il mesotelioma: «Come inviato di guerra ho respirato amianto: sono tranquillo e non mi arrendo, ma per questo non esiste una cura. La Rai non risponde alle mie email”

«Ero seduto davanti alla sua scrivania. “Houston, abbiamo un problema”, mi ha detto il professore. “Francesco, non so come dirtelo. In questo momento mi piacerebbe davvero fare l’animatore di un villaggio e non il medico. Hai il mesotelioma. Aggressivo”. “Quanto?” “Alto grado”.

Ha capito subito.
«Sapevo bene di cosa si trattava. Mi chinai in avanti, silenzioso, con le mani sulla testa. E l’insegnante si è incazzato. “EHI! E adesso cosa c’è? Lei reagisce, litighiamo, vedrete che ce la faremo”». Franco Di Mare, 68 anni, ex corrispondente di guerra e conduttore televisivo, deve controllare il respiro quando parla. «Ho un tumore che non lascia scampo. Mi resta poco da vivere, quanto non lo so. Ma non mi arrendo. Confido nella ricerca”. Accanto a lui c’è un grande carro armato su ruote, che lo segue ovunque vada. Ha un tubo trasparente nel naso. «È un diffusore di ossigeno, ormai è il mio polmone. Prima mi aiutava solo di notte. Da una decina di giorni però non riesco più a staccare la spina. Sono legato come gli astronauti. Se lo guardi da vicino assomiglia a R2-D2, il piccolo robot di Star Wars. La cagnolina Lili gli salta intorno.

Lo chiama per nome, il suo nemico.
«Quando ero piccolo, in famiglia la voce era abbassata: “Quella persona ha una brutta malattia”. Come se, nominandolo, il mostro entrasse in casa tua. Io invece sono diretto. Ho il cancro. Oggi ci curiamo e spesso guariamo. Non da questo. Non va via, al massimo puoi rallentarlo, ma lui resta lì ed è uno dei più cattivi”.

“Perché a me?”. Ha trovato la risposta.
«Perché ho passato molto tempo nei Balcani, tra proiettili all’uranio impoverito, iperveloci, iperdistruttivi, capaci di abbattere un edificio. Ogni esplosione rilasciava nell’aria infinite particelle di amianto. Ne bastava uno. Seimila volte più leggero di un capello. Forse l’ho incontrata a Sarajevo, nel luglio del 1992, la mia prima missione. O l’ultimo, nel 2000, chi lo sa. Non potevo saperlo, ma avevo respirato la morte. Il periodo di incubazione può durare fino a 30 anni. Eccoci qui”.

Ha scritto a riguardo un libro che esce domani: «Le parole per lo dirlo» (Sem, Feltrinelli).
«Raccontare le guerre fuori di me e quella dentro di me. Un piccolo dizionario esistenziale. Senza pietà. È la mia volontà.”

Un pomeriggio qualunque di tre anni fa.
«Ero seduto qui su questo divano e guardavo uno stupido programma in TV. Un dolore terribile esplose tra le scapole, una coltellata. Pensavo fosse dolore intercostale. Invece si è trattato di un collasso della pleura, di uno pneumotorace. Ho pensato: non è niente, passerà. Ho cambiato posizione, mi sembrava di sentirla meno. Ci ho dormito sopra, ma non riuscivo a respirare. Pensavo di avere il Covid, ma i test sono risultati negativi. Dopo 20 giorni così ho deciso di fare alcuni controlli al Policlinico Gemelli”.

E lì?
«Mi hanno sottoposto a stress test. Dopo l’uno sono svenuto. Correre nella sala radiologica per una radiografia. Al posto del polmone destro c’era il nulla. Era crollato insieme alla pleura, la pellicola che lo circonda. Metà della sua cassa toracica era vuota. Hanno provato a pompare aria per sollevarlo, ma non è bastato. L’hanno riattaccato con una specie di cucitrice. Ma prima hanno fatto una biopsia del tessuto. E infine la diagnosi che non mi lascia scampo”.

Mesotelioma, appunto.
«La malattia era contenuta nella pleura, a parte due piccoli punti dove era perforata. E da lì, mannaggia, è uscito il tumore. La decorticazione mi ha dato due anni di vita. Ma poi, sei mesi fa, c’è stata una recidiva. Lei si è presentata allo stesso modo. Una fitta molto acuta. Questa volta a sinistra. Respiro con un terzo della mia capacità polmonare”.

Non può più vivere senza questa macchina.
«Fino a venti giorni fa uscivo per fare la spesa. Due passi. Al massimo ho tenuto con me il respiratore portatile, che pesa 15 chili. Ma dura un’ora e bisogna sperare che non crolli. È successo una notte, ho passato un periodo difficile. Ora non ho più autonomia. Ero un uomo molto attivo. Guarda, io ho le ciabatte perché ho i piedi talmente gonfi che le scarpe non mi entrano, io che da buon napoletano sono sempre stato elegante.

Scrive che è quasi andato a cercare questo male.
«Senza volerlo, perché ero del tutto ignaro del pericolo, sotto quel cielo grigio balcanico sempre polveroso. Respirando l’aria della notte, mentre dormivo su brande incastrate tra i cingoli dei carri armati o nelle fabbriche sventrate. Ma era il mio lavoro”.

Corrispondente di guerra.
«La prima volta che io e l’operatore Antonio Fabiani siamo partiti per Sarajevo, avevamo solo microfono, macchina fotografica, cassette e batterie. Appena scesi dall’Hercules C-130 convinse un collega francese a vendergli un giubbotto antiproiettile per 200 dollari. Lo abbiamo indossato a turno. Ci siamo giocati”.

Il momento peggiore degli ultimi tre anni.
«Dover dire a chi ami che la malattia è curabile ma non risolvibile. Puoi estendere la scadenza del giorno, non procrastinarla all’infinito. Il tempo che abbiamo è prezioso, te ne accorgi solo quando te ne vai. E decidere di non sprecare nemmeno un attimo”.

Scrive: «Noi malati abbiamo sguardi più profondi e più leggeri di voi sani».
«Perché guardiamo gli altri con occhi diversi, più indulgenti, comprensivi».

«Chi è malato si innamora del mondo».
«Nella malattia il tempo rallenta, impone il suo ritmo, sei più attento, vedi cose che prima trascuravi. Oggi mi piaccio molto di più. E mi arrabbio. Non potevo essere così prima? Avrei dovuto aspettare finché non mi fossi ammalato?

hai qualche rimpianto?
“No, ho avuto la fortuna di fare il lavoro che sognavo, di vivere cento vite”.

Non è riuscito a…
«Visitare l’Antartide. Per imparare a suonare il pianoforte come Stefano Bollani. E vedere le Isole Fiji. Mi piaceva tuffarmi, adesso non riesco a respirare, che paradosso”.

Odi il tuo tumore?
“NO. Capisco che è un aspetto di me, uno dei tanti. Il male fa parte della natura. Ma non sono la mia malattia”.

È disdegnato dai vertici Rai.
«Quando mi sono ammalato ho chiesto il libretto di servizio, con l’elenco delle missioni, per supportare la diagnosi. Ho inviato almeno 10 email, dall’amministratore delegato al capo del personale. Nessuna risposta”.

Silenzio.
«Con alcuni prendevo il caffè ogni mattina. Ero un manager come loro, direttore ad interim di Raitre. Ho mandato loro un messaggio sul cellulare, chiamandoli per nome: “Ho una malattia terminale”. Mi hanno ignorato. Disgustoso, dovrebbero vergognarsi. Inoltre il palazzo di viale Mazzini è pieno di amianto. In un sussurro ti sconsigliano di appendere quadri al muro.

Assapora i ricordi.
«Mamma Maria che ha preparato la parmigiana di melanzane. Li ha allineati nella padella. E io, in ginocchio sulla sedia, ho versato il sugo con un mestolo. Sento ancora quel profumo adesso.”

Nonostante tutto.
«Ho una vita bellissima, sai? Sto con le persone che amo. Mie care sorelle. Sono protetto e accudito, mi sento un piccolo sultano. Ci fissiamo sempre sul nostro primo amore – il mio, al liceo, era ballerino al San Carlo – ma il più importante è l’ultimo, quello che ti accompagna nei passi finali. Per me è Giulia. Stiamo insieme da otto anni. Ci sono più di 30 differenze tra noi, prima erano meno evidenti”. La bella ragazza bruna si avvicina: «Amore, hai freddo?».

E ha tanti amici attorno a lui.
“Ci amiamo. Vengono a cena. L’altra sera ho cucinato le linguine al sugo di pane con i calamaretti. Ho molta fame, con tutto il cortisone che prendo. La sera gli oncologi mi hanno concesso un bicchiere di vino rosso”.

Guardi il calendario?
«No, il 28 luglio compirò 69 anni, ma non so se ci arriverò. Forse si. Sono tranquillo, non ho paura. L’idea della sofferenza mi spaventa, ma sono stata a una decina di funerali di colleghi più giovani di me. E sono miracolosamente vivo. Durante una sparatoria tra bande in Albania, un proiettile mi ha attraversato la parte posteriore del collo. Non sono morto perché mi sono chinato per prendere una batteria nella borsa. Mi ritengo un uomo fortunato”.

28 aprile 2024 (modificato il 29 aprile 2024 | 11:41)

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