La Biennale di Venezia secondo Alessandra Mammì – .

La Biennale di Venezia secondo Alessandra Mammì – .
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Anch’io sono straniero ovunque. Ma soprattutto mentre cammino all’Arsenale in questa Biennale d’arte che celebra l’estraneità come valore a cui aggrapparsi per comprendere un mondo esploso, accartocciato, sfaccettato. Troppi nomi sconosciuti, troppe tecniche che il mio ragionamento da intellettuale bianco relega al mondo dell’artigianato, troppi miti che non conosco e figurine fin troppo riconoscibili, troppi linguaggi per me ingenui se non folcloristici (sempre a causa dei miei vizi di pensiero eurocentrico).

La mostra di Pedrosa ai Giardini

Eppure ai Giardini mi sono sentito a casa, riconciliato con il curatore Adriano Pedrosa che aveva annunciato una mostra internazionale con una forte presenza di manufatti, arte tessile e intere famiglie di artisti/artigiani – cosa che mi aveva fatto avvicinare al Padiglione Centrale con un tono basso aspettative. . È stata una sorpresa, però, vedere come tutto fosse suddiviso in temi e stanze che hanno aiutato la mia comprensione di visitatore europeo, arrugginito su categorie di pensiero che profumano ancora di Novecento, avanguardia e concettualizzazione dell’arte.
Ad una sala dedicata all’astrazione ne segue una interamente riempita di ritratti disposti come una quadreria; da un focus sulla pittura queer siamo passati a una postazione politica con video che rasentavano il reportage. Oasi monografiche sono state proposte sotto forma di mostre o installazioni tematiche come l’imperdibile “Museo dell’Antica Colonia” di Paolo Delano che racconta per immagini cinque secoli di dolorosa storia coloniale di Porto Rico. O la bella stanza di Giulia Andreani (che non conoscevo, lo ammetto) dalle grandi tele dipinte di grigio di Payne che parlano degli albori del femminismo in dialogo con un capolavoro di art brut “Crocifissione dell’anima” del 1936 dell’artista autodidatta Madge Gill. Oppure le poche e intense foto di Claudia Andújar (La conoscevo!) che con un bianco e nero metafisico rispondono ai disegni infantili e simbolici degli artisti e sciamani Yanomami, tribù che diventa fonte e ispirazione del suo complesso lavoro.

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60a Esposizione Internazionale d’Arte. Ph: Irene Fanizza

La Biennale all’Arsenale

Questo ritmo organizzato mi ha fatto sentire parte di un mondo complesso e mi ha aiutato a capirlo. Poi all’Arsenale tutto si è confuso di nuovo. Nel trionfo di colori e tecniche, tra Africa, Americhe e Antipodi, danza davanti ai miei occhi l’universo policromo allestito da Pedrosa.
Se fossi sudamericano capiresti” me lo dicono due persone a me vicine che vivono in Sud America.
Forse. Ma un curatore non dovrebbe fornirmi gli strumenti per orientarmi anche se sono nato a Roma, città simbolo della storia imperiale d’Occidente; anche se sono cresciuto in un paese della NATO e ho studiato su testi intrisi di cultura bianca e dominante?
Non riesco a trovare questi strumenti. Le etichette si susseguono come le opere e i nuclei storici (terribile quello che riproduce quadri di pittori italiani espatriati dove si salvano solo gli splendidi allestimenti di Lina Bo Bardi) non sono facilmente distinguibili dalle opere moderne e contemporanee
La verità è che alla fine mi rifugio in quello che conosco come ilArchivio della disobbedienza che incontro nella prima metà del viaggio. Si tratta di un atlante video che raccoglie immagini di azioni, rivolte, pratiche di controinformazione e resistenza che spaziano dai problemi di genere a quelli climatici o sociali. Lo ha guarito Marco Scotini con la sua ormai provata capacità di mettere in scena gli archivi e merita una lunga sosta. Posso dire lo stesso del lavoro di Bouchra Khalili che in un’installazione multischermo registra gli spostamenti dei migranti su mappe geografiche, mentre il protagonista racconta passo dopo passo la sua storia in una voce fuori campo. Ma nonostante il suo nome nordafricano, Bouchra Khalilu ha studiato cinema alla Sorbona e arte all’Ecole Nationale Superieure di Parigi-Cergy, quindi è ovvio che non ho difficoltà a fermarmi e ad abbracciare il suo lavoro con simpatia. Parliamo la stessa lingua.
Il problema, quindi, non sono queste opere, né i film o i video ben girati che punteggiano il percorso e che provengono da registi magari di seconda o terza generazione immigrati di ritorno da eccellenti scuole di cinema di Parigi o Londra.

60a Esposizione Internazionale d’Arte. Ph: Irene Fanizza

Il pastiche geografico della Biennale

Il problema sono i paesaggi e i villaggi dipinti su lino da meticolosi talenti aborigeni o guatemaltechi; sono i collettivi di donne autodidatte che ricamano tessuti con la lana, o gli sconosciuti artisti cileni che disegnano sacchi di iuta o i Geometrie tessili africane che si confondono facilmente con bellissimi tappeti. Il problema è che il pastiche geografico mi impedisce di comprendere la differenza tra l’arte tessile centroamericana e quella africana. Eppure tra tecniche, culture, miti…. ci sarà qualcosa da separare e costruire una catalogazione, una cronologia, una sistematizzazione di tutto questo.
Insomma, quale paradigma attraversa questa allegra, vivace e colorata carrellata lunga Arsenal? Cosa resta alla fine di un viaggio se non riesco a trasformarlo in un’esperienza di cultura e di storia? È colpa mia? O di chi non mi permette di metabolizzare, di elaborare un pensiero e mi lascia solo la possibilità di cedere all’accettazione passiva o peggio all’unica categoria che mi resta: la questione se mi piace o no…?

I Leoni d’Oro alla Biennale

Eppure non mi sento solo ad avere questi dubbi. In definitiva, mi consola constatare che l’affermazione di questa cultura artigianale e popolare secondo cui l’arte capitale ha reso “straniera ovunque” non è entrata nel cuore della giuria.
Il sofisticato non è certamente ingenuo Anna Maria Maiolinonessuno dei due Karimah AshaduOrigini nigeriane ma nata a Londra che non a caso si è aggiudicato il Leone d’Argento con un video sui moto-taxi a Lagos realizzato dopo essersi formato al Chelsea College of Art. Ed è difficile classificare il lavoro dell’artista come artigianale Collettivo Mataaho con quella perfezione del design e la forza strutturale di un’architettura.
Ma soprattutto l’Australia ormai da anni porta nei suoi padiglioni la puntiforme pittura aborigena, eppure l’unica volta che vince un meritato Leone d’Oro è proprio nella Biennale dove il suo artista Archie Moore (discendente dei popoli Kamilaroi e Bigambul), realizza un’installazione concettuale dove non c’è traccia di spontaneità. Si tratta di un inventario di migliaia di nomi di antenati tra coloro che vissero nei 65mila anni precedenti la “scoperta” dell’Australia, che con grande rigore formale e un più forte impatto visivo ed emotivo non vuole affatto rivendicare la creatività indigena, ma mira invece a ricostruirne la Storia.

Alessandra Mammì

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