“Civil war”, il film che lascia senza parole perché dice tutto – .

“Civil war”, il film che lascia senza parole perché dice tutto – .
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A partire dalla fine, l’effetto che ha il film è parte integrante del film. Dalla visione di “Guerra civile” di Alex GarlandSi esce infatti pietrificati (in senso positivo: attenzione agli estremi), disorientati, concentrati. E l’impressione è che non sia una cosa soggettiva, di questo o quello spettatore. Dal primo all’ultimo fotogramma il silenzio davanti allo schermo è totale: nessun cellulare dimenticato acceso, nessun fruscio per trovare qualcosa nella borsa, nessun sussurro ad un amico, nessuno che si alza. Ogni rumore di fondo scompare di fronte a un film da cui mancano tutte le cose che non sono necessarie per una narrazione scarna, implacabile, senza retorica, senza lezioni morali, senza consolazione, senza bontà che non abbia anche un vantaggio proprio, come spesso accade nel mondo reale, e senza malizia se non quella inevitabile della discesa in un vortice nel quale chiunque potrebbe cadere, se non vigila su se stesso per tenere accesa la luce della coscienza, della libera scelta, dell’introspezione, della consapevolezza . E alla fine lo spettatore resta senza parole perché questo film dice tutto e lo dice senza fronzoli: vita, morte, ambizione, compassione, ambiguità, crescita, involuzione, competizione, amore, dolore, trasformazione e caduta, leadership e tendenza gregaria.. Senza spiegare, senza giustificare, senza risparmiare.

A partire dalla fine, l’effetto che ha il film è parte integrante del film. Dalla visione di “Guerra civile” di Alex GarlandSi esce infatti pietrificati (in senso positivo: attenzione agli estremi), disorientati, concentrati. E l’impressione è che non sia una cosa soggettiva, di questo o quello spettatore. Dal primo all’ultimo fotogramma il silenzio davanti allo schermo è totale: nessun cellulare dimenticato acceso, nessun fruscio per trovare qualcosa nella borsa, nessun sussurro ad un amico, nessuno che si alza. Ogni rumore di fondo scompare di fronte a un film da cui mancano tutte le cose che non sono necessarie per una narrazione scarna, implacabile, senza retorica, senza lezioni morali, senza consolazione, senza bontà che non abbia anche un vantaggio proprio, come spesso accade nel mondo reale, e senza malizia se non quella inevitabile della discesa in un vortice nel quale chiunque potrebbe cadere, se non vigila su se stesso per tenere accesa la luce della coscienza, della libera scelta, dell’introspezione, della consapevolezza . E alla fine lo spettatore resta senza parole perché questo film dice tutto e lo dice senza fronzoli: vita, morte, ambizione, compassione, ambiguità, crescita, involuzione, competizione, amore, dolore, trasformazione e caduta, leadership e tendenza gregaria.. Senza spiegare, senza giustificare, senza risparmiare.

È un film impressionante nella sua formidabile capacità di mostrarsi per sottrazione e non per ridondanza. E quindi non per le dure – e belle – scene di guerriglia urbana e non; non per la violenza arbitraria, carsica, strisciante che pervade le città allucinate di un’America (ma potrebbe essere qualsiasi luogo) trasfigurata nella versione di un piccolo futuro rispetto a un oggi dal potenziale distopico. Ma ciò che vediamo non è distopico, in realtà. Potrebbe già essere qui, e forse lo è già sotto varie forme, quell’umanità perduta o regredita che si incontra lungo il feroce viaggio intrapreso dai quattro protagonisti: due reporter esperti, un reporter alle prime armi disposto a tutto senza quasi rendersene conto, un anziano giornalista non disposto a fare nulla nel senso migliore del termine. Sono i testimoni di una commedia-tragedia umana che è davvero “on the road” – il romanzo post-apocalittico “On the Road” di Cormack McCarthy può aver ispirato l’atmosfera, ma, a seconda dell’occhio di chi guarda, avrebbero potuto esserlo anche i fratelli Coen, Stanley Kubrick o gli scenari fiabeschi ostili di Tim Burton. Non importa, ciò che è “per strada” è anche profondamente interiore, poiché è sempre filtrato dall’occhio digitale – videocamera, macchina fotografica, cellulare. Un organo vero come un occhio vero, più reale dello sguardo spalancato delle vittime gettate tra gli stracci, copia macabra di un’opera di Pistoletto, e più del ghigno dei carnefici abituati alla carne della roulette russa. Ma chi è il vero carnefice? ci chiediamo mentre dilaga la guerra civile del titolo, sorseggiata ad ogni pompa di benzina persa nel nulla. Che è solo una supposizione, un’informazione di servizio: ci sono gli stati separatisti della California e del Texas e c’è un esercito di lealisti che difende un presidente ectoplasmatico braccato a Washington. Chi ha ragione e chi ha torto non si sa e non ha importanza.

Non c’è risposta, ognuno è colpevole e innocente a modo suo, tanto che la guerra civile potrebbe anche non esistere, e forse l’umanità sarebbe comunque così. Così può diventare l’umanità se non vigila su se stessa in ogni minuto di ogni singola vita, ciascuna diversa ma ugualmente capace di cadere nel proprio piccolo o grande inferno. L’unica cosa che resta (o che conta) ai quattro protagonisti è scappare, scappare anche da se stessi, e scattare la foto che permetta loro almeno di credere nella propria esistenza. Ma l’unica cosa che resta a chi guarda non è quella, e forse una via d’uscita c’è. Il film non dice, indica, e a forza di sottrarre fa sbattere la testa.

 
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