Al Far East Film Fest, lo stato dei fatti del cinema orientale contemporaneo – .

Al Far East Film Fest, lo stato dei fatti del cinema orientale contemporaneo – .
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Aspettiamo con ansia la 26esima edizione della manifestazione udinese che rappresenta un appuntamento imperdibile per gli appassionati del cinema orientale e per tutti coloro che nel cinema hanno ancora voglia di emozioni. Ecco cosa abbiamo visto.

Se è vero che, per chi li frequenta assiduamente per lavoro o per passione, ritornare anno dopo anno ad un festival dà sempre una vaga sensazione di déjà vu, Ritornare a Festival del cinema dell’Estremo Oriente dopo tanti, troppi anni di assenza mi ha dato una strana sensazione. Tutto, a quanto pare, era esattamente come lo avevo lasciato: il Teatro Nuovo Giovanni da Udine, gli allestimenti colorati e fantasiosi, le truppe di cammelli di appassionati di cinema orientale (quelli storici, con l’aggiunta delle nuove generazioni), la partecipazione della città, l’aria di festa, la capacità degli organizzatori di confezionare il proprio evento, ed i film che vengono presentati, con musiche, presentazioni, toni vivaci e coinvolgenti ed intriganti per il pubblico.
Nulla sembrava essere cambiato: c’era ancora la piccola taverna davanti al teatro, dove ristorarsi con una tartine e un bicchiere di vino tra un film e l’altro (anch’essa aveva una nuova, felice gestione); e stava ancora girovagando nell’atrio Marco Müller, oggi il nuovo direttore di Taormina, impegnato a salutare con un sorriso i tanti amici che ha tra i numerosi ospiti del FEFF. Che nulla sia (apparentemente) cambiato lo è la migliore conferma che la formula del FEFF funzionava allora e continua a funzionare oggicon uno sguardo meno superficiale possiamo vederlo Cresce però il festival udinese dedicato al cinema popolare orientale: rispetto a tanti anni fa, c’è una stanza in più, quella del Visionario, e poi iniziative, incontri, workshop e occasioni che raccontano di una realtà dinamica, e per nulla passivamente identica a se stessa.
Ma ciò su cui bisogna riflettere, più che sul festival che lo contiene, è il cinema che lì è stato presentato. Mentre il FEFF cresce nel rispetto della propria identità, nell’ultimo quarto di secolo molte sono state le trasformazioni radicali nella galassia del cinema orientale. Se in origine il cuore pulsante del FEFF era strettamente legato al cinema più bello del mondo in quegli anni, quello di Hong Kong, anno dopo anno la manifestazione udinese ha registrato e rappresentato i movimenti, percepibili e meno percepibili, che hanno portato, ad esempio, a il declino del cinema dell’ex colonia britannica e la nascita della dominazione industriale e artistica coreana, ma anche i tanti travagli del cinema giapponese, o l’emergere di realtà come l’Indonesia, la Thailandia, la Malesia. Insomma, il FEFF è sempre stato una cartina di tornasole dello stato delle cose, e lo è tuttorapur dovendo ormai vivere in un contesto in cui sono tanti i festival che, paradossalmente grazie a quanto fatto a Udine, hanno ormai aperto occhi e orecchie e rivolto l’attenzione verso Oriente, rappresentando così una concorrenza più agguerrita rispetto al passato .

YOLO: dalla Cina con esuberanza

Che situazione abbiamo riscontrato, dunque, nel corso dei tre giorni trascorsi al FEFF? Innanzitutto, come ci racconta il film scelto per l’apertura della 26esima edizione del festival, YOLOdi un Il cinema cinese che ha portato il suo livello di maturazione industriale e commerciale a livelli di estrema sofisticazione.
Diretto e interpretato Jia Ling, protagonista della commedia cinese qui alla sua seconda prova dietro la macchina da presa, YOLO racconta in estrema sintesi la storia di una trentenne depressa e sovrappeso che, dopo la rottura con la famiglia, e una serie di incontri più o meno fortunati, trova nella passione per la boxe la chiave di un riscatto che passa ovviamente attraverso una straordinaria trasformazione fisica, ma che è prima di tutto una metamorfosi caratteriale ed esistenziale. Certo, nel film è notevole che Jia Ling abbia preso deliberatamente venti chili per interpretare il ruolo della protagonista, per poi perderne cinquanta durante le riprese e rivoluzionare il suo fisico, e ancora più notevole è il fatto che il film abbia attualmente un incasso equivalente. Di 480 milioni di dollari; ciò che colpisce, tuttavia, è YOLOè la capacità di essere il cinema popolare in modo sfrontato e, a suo modo, raffinatomescolando costantemente registri (dalla commedia al dramma, passando per i film sportivi) e accumulando una quantità di spunti e idee che, in altri mercati, sarebbero stati diluiti in almeno una mezza dozzina di film diversi. Qui però c’è un gusto per lo spreco creativo, per l’esuberanza narrativa, che andrebbe in qualche modo preso d’esempio.

Hong Kong tra passato e futuro

Sul Fronte di Hong Kong, le cose si complicano: il cinema dell’ex colonia è sempre più sottoposto al peso politico, finanziario e anche creativo della Cina continentale, e sembra faticare a ritrovare il dinamismo creativo del passato. Se ce ne sono ancora Hermann Yau di film divertenti ma per nulla originali Missione di Moscache cercano di mantenere viva una fiamma di continuità con un passato glorioso e di guardare al futuro, ecco i nuovi nomi della scena locale che cercano di esplorare nuovi territori.

Laurence Kancon In pieno giornoaffronta il dramma giornalistico, in cui la star Rachel Leung veste i panni di un giornalista investigativo che cerca di raccontare gli orrori e le violenze subite dagli abitanti di un centro che accoglie anziani e disabili: Quello di Kan è un film classico, quasi hollywoodiano, fin troppo moderato ed equilibrato nei tonie che, sottolineando il ruolo del giornalismo investigativo, tocca indirettamente il punto dolente della libertà di stampa sempre più limitata nell’odierna Hong Kong. Jonathan Li il suo film, Polvere alla polvere, lo gira direttamente in Cina, e con fondi cinesi, ricostruendo un famoso caso di cronaca (una rapina a mano armata che provocò numerose vittime nel 1995) e raccontando la ventennale caccia da parte di un poliziotto al responsabile di quella rapina. Da un lato mette una stella dell’ex colonia, Lam Ka-tungdall’altra la stella cinese Da Peng (uno che viene dalla commedia, qui in un ruolo molto drammatico), e questo incontro-scontro è in qualche modo il simbolo di due idee e tradizioni diverse del cinema che cercano un momento di sintesi. Una sintesi che Li però trova solo in parte, in un film le cui qualità sono diluite un po’ troppo in una durata eccessiva e in una struttura fin troppo tradizionale e legata a modelli autoriali lontani dalle tradizioni di HK.

La Corea fa i conti con la storia

Da quanto proiettato nei primi giorni del FEFF, la corazzata coreana conferma tutta la sua potenza cinematograficae anche il desiderio di usare il cinema per affrontare la storia del Paese.
Se stesso Contrabbandierila storia di alcuni contrabbandieri degli anni ’80, a metà tra commedia grottesca e thriller d’azione, si rivelò un titolo del tutto trascurabile, e così, in modi diversi, Riscattato E 12.12 La Giornata sono dei grandi produzioni pensate per il grande pubblico tanto solide dal punto di vista industriale quanto limitate dal punto di vista delle idee creative e artistiche.
Diretto da Kim Seong-hun (quella di Una giornata dura e la serie Netflix Regno) Riscattato racconta la storia (più o meno vera) di un funzionario del Ministero degli Esteri coreano che, nel 1987, parte per Beirut dilaniata dalla guerra civile con l’incarico ufficioso di pagare il riscatto necessario per liberare un connazionale diplomatico che era stato rapito più di un anno prima nella capitale libanese. Teso medio, decisamente dinamico, basato su un consolidato mix di azione e umorismo con l’aggiunta di una spruzzata di drammaticità, incarna al meglio il cinema coreano contemporaneoquello capace di film solidi, interessanti ma forse non particolarmente memorabili.

Tuttavia, non c’è traccia di umorismo nel 12.12: The Day di Kim Sung-soo, ricostruzione grandiosa, troppo magniloquente e un po’ turgida del tentativo di colpo di stato avvenuto nel 1979 in Corea, all’indomani dell’assassinio del presidente Park, per mano del generale Chun Doo-gwang. Politicamente e tatticamente intricato, ma preciso, il film di Kim si distingue soprattutto per le performance dei protagonisti: Hwang Jung-min in quelli di Chun, e Jung Woo-cantato in quelle del generale Lee, suo principale avversario e, in qualche modo, salvatore della Patria.

Indonesia esplosiva

In un’edizione di FEFF in cui la concentrarsi sull’Indonesia è stato chiaro e dichiarato, allora vale la pena citare il passaggio dell’art 13 Bombs, un thriller d’azione puro diretto dal giovane Angga Dwimas Sasongko, uno dei nomi di punta del nuovo cinema indonesiano. Dialoghi troppo lunghi, spesso troppi, con un cast e interpretazioni mediamente noiose a dirla tutta, 13 Bombs, però, ha dalla sua il coraggio di perseguire un’idea di azione senza compromessi, fatto di esplosioni, acrobazie fisiche, combattimenti corpo a corpo e scontri a fuoco tattici, e di coniugare il tutto con una trama che, seppur forse un po’ casuale, ha il pregio di toccare temi contemporanei e di grande attualità per il Paese asiatico e per il mondo intero: dal terrorismo alle criptovalute, ma soprattutto le disuguaglianze create dalla globalizzazione finanziario-capitalista sistema e la distanza insopportabile che si sta creando tra i sempre più ricchi e i sempre più poveri nel mondo. Va inoltre sottolineato come, in un film in cui le storie di terroristi e forze antiterrorismo si mescolano a quelle di due nerd titolari di una start-up specializzata in valute digitali, e che comunque per forma e contenuto sarebbe leggibile come tipicamente “maschile””, è il ruolo di almeno tre personaggi femminili di altissimo livello, e tutt’altro che passivi, compreso quello di una ragazza che sfoggia un curioso cassetto Louise Brooks.

 
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