Le riflessioni di Alberto Manguel sull’arte della traduzione – .

Alberto Manguel inizia un po’ misteriosamente a ricordare Balzac e il suo Il capolavoro sconosciuto, evitando di citarlo esplicitamente, ma suggerendo la famosa trama: quella di “un pittore che, ossessionato dall’idea di creare il capolavoro perfettocontinua a ritoccare il suo dipinto finché non diventa un miscuglio di colori indistinti sulla tela.”

Il suo nuovo libro, un miscuglio di riflessioni, microsaggi, racconti, ricordi, apologietuttavia, non si tratta di pittura, ma di traduzione. Il rovescio dell’arazzo (Sellerio) infatti indaga, o meglio si aggira ermeneuticamente, attorno a questo tema, evidenziandone le conseguenze aspetti culturali (o letterari) e storici. Tradurre, dice, non è solo riportare al meglio un testo in un’altra lingua, ma è anche farlo tramandare, ereditare, interpretare, dall’oscuro linguaggio divino alla letteratura di tutti i tempi, dalla tradizione alla società, passando per appropriazioni e perfino furti, perché «ogni traduzione è una forma di esegesi. Ogni traduzione è un atto politico”.

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IL Scrittore argentinoesploratore altamente colto di bibliotechegrande lettore: il suo rimane impareggiabile Storia della lettura (Mondadori 1997, poi ripreso più volte da altri editori) – studente o meglio lettore ad alta voce, in gioventù, per Jorge Luis Borgesin questo libro apparentemente divagante, dalle riflessioni sulla lirica persiana alle domande ironicamente cauterizzanti come quando si chiede se “tradotte in termini politici, l’Italia di oggi è una traduzione delle sventure di Garibaldi o di Pinocchio?”, è in realtà sempre attento alle sue tema, non spreca nulla.

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Ma perché Balzac? Il capolavoro sconosciutoun’opera che sembra anticipare l’arte del XX secolo, racconta di una battuta d’arresto: un maestro pittore, di celebre abilità e tecnica, tiene nascosto per dieci anni un ritratto femminile e, quando finalmente decide di mostrarlo (a un giovane Poussin accompagnato da un altro artista realmente esistito, François Porbus), quasi impazzisce dal dolore perché i suoi due interlocutori non vedono altro che una tela ricoperta di colori, come se fosse un dipinto di Pollock, da cui emerge solo un piede di squisita fattura.

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Lui, convinto di aver raggiunto la perfezione e non riesce a rassegnarsi, brucia nella notte il dipinto e “muore”: non si uccide, semplicemente muore, come altri personaggi di Balzac malati d’amore, che hanno raggiunto la perfezione. fine della loro vita. desiderio. Per Manguel quello del pittore è probabilmente un errore di traduzionealmeno perché, spiega, “l’arte della traduzione ricorda ai lettori che non esiste mai una lettura “corretta”, la correttezza è irraggiungibile, gli sguardi dei lettori come quelli degli spettatori sono sempre diversi, forse imprevedibili”. O cita Don Chisciotteverso la fine delle sue avventure, quando osserverà (da qui il titolo del libro) che “tradurre da una lingua all’altra” è come “osservare gli arazzi fiamminghi dal rovescio: sebbene le figure si percepiscano, sono piene di fili che li oscurano e non appaiono uniformi e del colore della legge”.

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Ci troviamo, in altre parole, in una situazione di camera oscura, anzi, alla maniera borgesiana, di specularità. Perché «si dice – scrive Manguel in un altro pezzo del libro, che ha una ricorsività circolare e un po’ ipnotica – che i ritratti sono specchi, e gli specchi, si sa, mentono sempre. Le traduzioni sono (o possono essere) specchi”. Anche se talvolta mentono, sono l’unica vendetta possibile su Babele, perché se la mitica dispersione delle lingue che puniva l’orgoglio degli uomini «fu un provvedimento divino per ostacolare il nostro progresso, allora la traduzione è il mezzo (o uno dei suoi mezzi) parte) per ripristinare il potere di raggiungere i nostri obiettivi”. Babele è quindi una ferita che l’umanità tenta, attraverso la traduzione, di rimarginare.

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Sembra ovvio, ma è curioso, proprio a questo proposito, che il linguista Andrea Moro In Parlo dunque sono (nuova edizione, appena uscita da Adelphi), sicuramente leggibile parallelamente a Manguel, suggerisce ipoteticamente una conclusione opposta: e cioè che “forse Babele, alla fine, è stato un dono”, perché ha permesso la differenziazione dell’umanità: le barriere linguistiche avevano ( avere) un effetto protettivo, “come certe epidemie per gli animali selvatici”. A ben vedere, le due osservazioni, certamente incomparabili per i diversi contesti in cui vengono proposte, non risultano però in opposizione. Infatti, a un certo punto Manguel osserva che se “non esiste società senza una lingua comune”, allora “il rovescio del mito di Babele è che la convivenza implica l’uso di una lingua per stare insieme”. E, ovviamente, traduci; anche dalla tua lingua.

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Partito con Balzac, chiude il suo libro a volte aforismico e un po’ sacro con un ricordo di Borges: mentre lavorava con Bioy Casares SU IL llibro del paradiso e dell’inferno(qui la prima edizione Adelphi risale al 1960), legge lo scrittore di Buenos Aires Dizionario dell’Islam Di Thomas P. Hughes (1886) l’apologo di un fedele arabo che aveva chiesto al Profeta se esistessero dei cavalli in Paradiso. La risposta era incoraggiante: non solo erano lì, ma erano alati e potevano portarlo dove voleva in un istante. “Il testo di Hughes – conclude Manguel – finisce qui. Borges e Bioy tradussero quel passaggio e inventarono la conclusione: L’uomo rispose: i cavalli che mi piacciono non hanno ali”.

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