il Cile inquieto di Alia Trabucco Zéran – .

Una storia può avere molti inizi. Il nuovo romanzo dello scrittore cileno Alia Trabucco Zéran, Pulito(Edizioni SUR, traduzione di Gina Maeri) inizia dalla fine: muore una bambina. Subito, a pagina due. Ce lo racconta senza giri di parole la narratrice, Estela Garcíaquarant’anni, gli ultimi passati a lavorare come governante per la famiglia Jensen – madre, padre, figlia – nella loro casa di Santiago, Cile.

Pulito inizialmente sembra concentrarsi su romanzo poliziesco: c’è un presunto omicidio, un narratore ambiguo, forse inaffidabile ma in vena di confessioni, dal ritmo serrato. Ma quando Estela inizia a ripercorrere gli eventi che hanno portato a quell’epilogo, quando inizia a raccontarci di sé, continua a uscire dalla linea, divaga. Si perde in quelli dettagli quotidiani apparentemente semplici, ma che sommati insieme danno il ritratto di un’intera vita. Il suo. E poco a poco diventa chiaro che Trabucco Zéran gioca con i generi narrativi e che il presunto omicidio è solo un pretesto per parlare di un’esistenza trascorsa nell’ombra, per dare voce a chi fino a quel momento era rimasto in silenzio.

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Sette anni prima, Estela lascia la madre e la casa in cui è cresciuta, nel sud del Cile e arriva nella capitale in cerca di fortuna. Trova facilmente lavoro come domestica.

Con una bambina in arrivo, i Jensen hanno urgente bisogno di qualcuno che li aiuti in casa e il trentenne che bussa alla loro porta sembra avere quello che serve: E istruito, affidabile, di bell’aspetto. Ma quello che doveva essere un lavoro temporaneo, accettato solo per mettere da parte qualche risparmio, si trasforma in un tempo indeterminato a causa di esigenze impreviste. E così, per Estela i giorni diventano mesi, i mesi diventano anni. La donna si ritrova intrappolata nell’insidiosa routine dei suoi datori di lavoro, fatta di cordialità di facciata, testa bassa e pulizie sempre di lunedì. Lei è alienante: “La vita tende ad essere così: una goccia, un’altra, un’altra ancora, e poi ci chiediamo, perplessi, perché siamo bagnati fradici”.

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A casa, Estela diventa testimone delle dinamiche più intime di una famiglia. D’altronde anche Maggie May se lo ricorda Lucia Berlino nella sua storia Manuale per addetti alle pulizie, “Le donne delle pulizie sanno tutto”.

Dalla sua stanza sul retro, quella spoglia, senza finestre, Estela ascolta il gentiluomini litigare, amarsi, ignorarsi. Vede un marito ossessionato dal tempo, una moglie che diventa rossa ogni volta che le cose non vanno come vuole. Si prende cura della piccola Julia, le prepara il cibo che la piccola rifiuta sistematicamente. La vede mordersi le cuticole, fare i capricci. Guardare affascinata sua madre mentre si trucca.

E in tutto questo guardare, La rabbia di Estela cresce: per il classismo abilmente nascosto tra le righe, per il disprezzo che la signora Jensen nasconde tra gli angoli della bocca, per i capricci autoritari di una ragazzina ignara di essere già la sua padrona. La frustrazione trova sfogo solo in piccoli tentativi di sabotaggio e una disobbedienza sporadica che la porta a distaccarsi progressivamente dalla realtà, una realtà inospitale, che ha le spinee inevitabilmente fa male.

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Nel fiume di parole di Estela emerge la critica sociale di Alia Trabucco Zéransottile ma potente: con impeto ma senza gridare, l’autrice e la sua protagonista raccontano una storia disuguaglianze di classe, sulla discriminazione e sulle dinamiche del potere sociale. Sullo sfondo un Cile inquieto, fatto di malumori e movimenti popolari, debiti collettivi e grida di protesta che escono dalla televisione ma che si possono tacitare con un tasto del telecomando.

Anche Estela verrà messa a tacere: innanzitutto dal suo stesso ruolo di domestica, in cui in fondo basta annuire e fare; infine, da solo, quando, dopo un dolore inaspettato, si ritirerà nel silenzio volontario. Ritroverà la parola nell’epilogo che dà inizio al racconto, nella sua confessione ai lettori. E con esso troverà anche la sua liberazione.

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