Avventura ed esoterismo nel romanzo “dimenticato” di Peské Marty – .

“Che cosa sanno?amore carnale quelli per i quali la vita è leggera e amano solo un tenero e colpevole passatempo? Ma coloro che sono schiacciati dalla vita: gli sconfitti, i disonorati, i miserabili… questi possono dire quanto è buona la carne di una donna! In questa carne, dalla quale hanno avuto vita e sulla quale si sono rannicchiati da bambini, trovano ancora rifugio”, dice il misterioso protagonista di Qui il sentiero si perde (Adelphi, traduzione di Daniele Petruccioli) di Antonietta Peske E Pierre Marti quando, durante il suo lungo e tormentatissimo viaggio traAsia centrale e il Siberia si chiede riguardo a relazione furiosamente eroticatra esaltazione, violenza, tenerezza, con un’affascinante zingara chi lo ha scelto tra tanti, vedendo in lui qualcosa di unico e speciale, chissà, magari riconoscendolo?

IL vagabondonel momento dell’amore con questa, un po’ inquietante, Maluzia che sa provocarlo”un godimento infernale” e lo spinge a uccidere per riconquistare la libertà, si trova in condizioni di schiavitù a Samarcanda. E non è un vagabondo qualunque, ma ecco Lo zar Alessandro IAutocrate prima illuminato e poi reazionario, che finse la propria morte per intraprendere una sorta di interminabile itinerario iniziatico, e non solo, nel perimetro del suo già vasto impero; come per inseguire il verità e il nudità dell’umano.

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Ci sono alcuni momenti bruschi nelle varie sezioni del romanzo i cambiamenti del punto di vista, che potrebbe suggerire anche una lettura diversa: non solo un personaggio, ma due o tre personificazioni dello stesso. La sostanza però non cambia. Dello zar che ha sconfitto Napoleone e ha inventato il Santo alleanza infatti esiste una solida leggenda, che si è diffusa Russia a partire dal 1825, anno ufficiale della morte del sovrano, e al quale la casa regnante cercò invano di contrastare anche con periodiche esumazioni della salma; a cui credono anche alcuni storici e che soprattutto interessava Leone Tolstoj inducendolo, dopo aver indagato sulla vicenda di un ex deportato in Siberia divenuto una sorta di santo popolare, a riconoscere in lui il sovrano scomparso in Memorie postume dello starets Fëdor Kuzmič. È un racconto scritto agli inizi del Novecento e poi pubblicato nel 1912, dopo la sua morte.

Antoinette Peské e Pierre Marty, marito e moglie che insieme a questo trasparente pseudonimo hanno firmato anche altri due romanzine hanno certamente tenuto conto, però, ampliando e complicando abilmente l’ispirazione storica o leggendaria in una grande saga avventurosa, un libro dove l’avventura si tinge di misticismo, religioni, filosofia orientale, buddismo, gusto esoterico, con spirito e sensibilità affatto XX secolo – è molto francese.

Quando uscì, dentro 1955è venuto magnificamente ignoratoforse a causa del suo taglio anticipò l’imminente postmodernismo. Riproposto trent’anni dopo sempre in Francia, è ora nella Biblioteca Adelphi (riuscirà, come spesso è accaduto, a “resuscitare” un libro dimenticato e a farlo diventare un successo?): con la prefazione francese dell’epoca, che in verità si limita a evocare l’immagine di un “romanzo occidentale” paragonando l’immenso Oriente tra Asia e Siberia al selvaggio West americano come terre di frontiera dove tutto può succedere.

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Non è certo un suggerimento insensato, ma molto parziale, perché la grande avventura di Alessandro non è solo scandita da eventi materiali e lotte traumatiche (la schiavitù, la violenza, l’omicidio, l’amore – anche omosessuale – il vagabondare per foreste e montagne selvagge, le distese di neve, la furia degli elementi, la lotta per la sopravvivenza, i cavalli, i cercatori d’oro, gli incontri con popoli lontani tra cui mongoli, tagiki, uzbeki , anche cinesi, lavoratori forzati e banditi, fuggitivi e senzatetto) ma ha anche una trama che si potrebbe definire spirituale. Lo zar pellegrino è attratto dal saggezza dell’Orienteverso il quale ha anche moltissimo diffidenza.

Ad un certo punto del viaggio arriva a chiedersi se “occidentali delusi” che, “aspettando chissà quale rivelazione, interrogano quel leggendario paese, gli sconosciuti popoli dell’Oriente, portatori, si crede, del misterioso seme da cui risorgerà l’età dell’oro” non si rendono conto di come siano “ahimè” gli orientali , appena più avanti nel marciume rispetto all’Occidente”. In una svolta decisiva, verso la fine, non solo impara da a Lamaapprezzandoli, le dottrine del Buddhama impara a compiere terribili rituali tibetani e ad evocare anzi demoni, mentre tra sogno e realtà il “Dio è morto” di un Nietzsche ancora da venire; e anche le parole di un saggio musulmano che gli disse: il Dio al quale ritorni è il nulla.

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Va detto che troppa attenzione impalcatura filosofica e le sue derivazioni un po’ improntate ai cliché esoterici del Novecento, rischiano però di fare torto al vero fascino in questo libro atipico e un po’ scandalosoche è quello diavventuradi un narrativa frenetica, a volte disordinata, a volte selvaggio e – anche retoricamente – popolare, perfino sovreccitato; si direbbe Salgarian, tra l’altro conteggio filosofico E feuilleton.

La prefazione francese dell’edizione del 1985 lo paragona a un libro ottocentesco di autore sconosciuto, La vita di un pellegrinoma anche per chi non ha studiato particolarmente la letteratura russa, man mano che la approfondisce Qui termina il percorso molte pagine e anche alcuni episodi specifici sembrano evocare irresistibilmente un meraviglioso classico come Il viaggiatore incantato di Nicolaj Leskov (entrambi i testi sono disponibili tra l’altro in bellissime edizioni adelfiche): dove un monaco racconta, durante una traversata del lago Ladoga (vicino al confine con la Finlandia), le sue incredibili imprese di avventuriero nell’Asia centrale, anche in questo caso tra duelli rustici, cavalli, zingari affascinanti e inquietanti, per non parlare degli omicidi.

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Il tono, però, è quello di a allegro spaccone, a cui si può credere o non credere. Niente di picaresco, però, in Alessandro di Peske-Martin, che entra a far parte, passando per la Senna, anche del mondo dei viaggiatori incantati – non necessariamente russi. Gli autori, che dovettero avere, se non esperienza diretta, una buona conoscenza del paesaggio siberiano e mongolo, dei regni asiatici poi inglobati nell’impero zarista (e un ricordo di famiglia: Antonietta Peske era figlia di due artisti russi emigrati a Parigi), avevano a destino letterario finora piuttosto avaro. Pierre MartNon fu un letterato né un intellettuale pubblico ma un giurista, appassionato di filosofie orientali.

Antoinette Peské ha avuto solo un po’ più di fortuna, debuttando come poetessa apprezzata ad esempio da Guillaume Apollinaire. E se i suoi romanzi, L’indescrivibile rivale (1924), La scatola in os (1941, tradotto per Irradiazioni nel 2010) ha effettivamente ricevuto una certa attenzione – è stato paragonato, ad esempio, a Emilia Bronte -, tuttavia, è rimasta un’autrice di nicchia.

Dopo la morte del marito non scrisse più nulla, morì nel 1985. le Monde del 10 ottobre le ha dedicato un doveroso necrologio, ma in condivisione: nello stesso articolo è stato ricordato anche il nostro Richard Bacchelli.

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