Il potere dell’arte al tempo del fascismo – .

Il potere dell’arte al tempo del fascismo – .
Il potere dell’arte al tempo del fascismo – .

Esce oggi il nuovo libro di Vittorio Sgarbi Arte e Fascismo (La nave di Teseo), dedicato all’esperienza artistica del ventennio. Venerdì l’autore sarà ospite della XXV edizione della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, per una serata dal titolo Arte e Fascismo. Nell’Arte non c’è Fascismo. Nel Fascismo non c’è Arte, una conferenza di e con Vittorio Sgarbi, all’interno del ciclo “Rinascimenti e Scoperte” dedicato ai maestri dell’arte (Montalto delle Marche, Piazza Umberto I, ore 21). Pubblichiamo un estratto del libro.

Reticenza. Paura della storia. Antifascismo perenne. Il fantasma di Mussolini. Cioè: bisogna essere assolutamente antifascisti. Da questi diktat deriva la rimozione negli ultimi quarant’anni dell’evidente collegamento di Arte e fascismo. Così, a partire dall’insuperabile mostra del 1982 (dal titolo in caratteri decofascisti) Annitrenta, a Milano a Palazzo Reale/Arengario definita “contenitore d’epoca”, si sono susseguite mostre inequivocabili dai titoli sfuggenti, il cui tema era però sempre e solo lo stesso: Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerrea Forlì, nei musei di San Domenico, nel 2013, a cura di Fernando Mazzocca; Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics. Italy 1918-1943, catalogo della mostra di Milano, Fondazione Prada, nel 2018, a cura di Germano Celant; Il regime dell’arte. Premio Cremona 1939-1941, a Cremona, museo civico Ala Ponzone, 2018-2019, a cura di me e Rodolfo Bona; cui vanno aggiunte le mostre, nel nome di Margherita Sarfatti, al Mart e a Palazzo Reale di Milano. Quella di Forlì, dopo un severo pronunciamento della giunta comunale, ha cambiato il titolo ardito Dux. Gli anni del consenso, storiograficamente impeccabile, nel generico, e non propriamente sarfattiano, Novecento.

Siamo antifascisti. Non possiamo pronunciare quella parola, se non contro. Nonostante l’evidenza, cronologica e iconografica. La damnatio memoriae. Mai fascismo. Innominabile. Senza nome. Nonostante l’evidenza. L’attrazione del male. Il fascismo è come la mafia. Bisogna solo contrastarlo. E raccontarlo? No, a meno che non si finga di parlare di qualcos’altro. Eludendo. Alludendo. Divagando.

Ma il tema – e il momento – è questo. No. Meglio fingere. Inganniamo la gente. Diamogli qualche dose di Sarfatti. E chi ha firmato il “Manifesto degli intellettuali fascisti”? Gabriele d’Annunzio, Giuseppe Ungaretti, Ardengo Soffici, Luigi Pirandello, Margherita Sarfatti, Curzio Malaparte, Ugo Ojetti. Ignoriamo questo particolare, parliamone lo stesso. Così siamo arrivati ​​a oggi, togliendo, voltando la testa, censurando. Un vuoto di vent’anni, e un buio di ottant’anni dopo. Siamo oltre il centenario.

Così, dopo Il regime dell’arte a Cremona, ho voluto riparare a questa dimenticanza, a questa ipocrisia. L’avevo fatto a Stupinigi con la spaventosa mostra Il Male. L’avevo fatto a Salemi, strappando a Corleone il museo della mafia, proposto dalla Fondazione Rosselli, e rifiutando il consolatorio e ricostituente Centro di documentazione delle attività antimafia. La mafia che esisteva può essere raccontatasenza paura, e il museo la rende una cosa morta, archeologica. In un museo muore anche l’arte contemporanea. La paura tradisce la conoscenza.

Angelica e Luciana Giussani (cognome altrimenti noto per la sua vocazione al bene) lo avevano capito e avevano chiamato il loro fumetto di successo Diabolik, non Ginko. È noto, d’altronde, che il male fa notizia, il bene no. Che i bambini amano le armi e giocano alla guerra. Che la follia genera creatività, e la salute è contigua alla ginnastica (per carità, non c’è niente di male; ma Juri Chechi non è un van Gogh). E così ho deciso, senza veli, senza giochi di parole, senza ipocrisia: Arte e fascismo.

Quel che si sa, quel che è nostro, grandissimi artisti, a cominciare da Adolfo Wildt. Ma La Russa ha dei busti del Duce in casa sua. Ci faremo i conti. Erano anche, in numero esagerato, in un museo, il Musa di Salò, per volontà di Giordano Bruno Guerri, che ebbe il coraggio di dargli un titolo diretto, sotto mentite spoglie saggistiche: Il culto del Duce; l’arte del consenso nei busti e nelle raffigurazioni di Benito Mussolinie nessuno protestò, come era accaduto nella partigiana Seravezza nel lontano 1997.

 
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