Siamo tornati nell’Italia della crescita zero. Cottarelli spiega perché – .

Siamo tornati nell’Italia della crescita zero. Cottarelli spiega perché – .
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Banca d’Italia dice +0,6%. Il FMI è convinto di un +0,7%. Confindustria scommette sul +0,9%. Qualunque sarà il tasso di crescita del Pil italiano nel 2024, la realtà non cambia molto: siamo tornati ad essere il Paese della crescita economica al punto zero. Un ritmo al quale l’Italia – escludendo le due grandi crisi del 2008 e quella del Covid, seguite dai loro fisiologici rimbalzi – si mantiene ormai da venticinque anni. Le ragioni di questa stagnazione? Carlo Cottarelli, uno degli economisti più autorevoli del Paese, elenca l’ad HuffPost i principali: “Bassa crescita della produttività, scarsa capacità di attrarre investimenti, burocrazia, giustizia lenta, tasse elevate e declino demografico” a causa dei quali, nell’arco di vent’anni, abbiamo perso due milioni di persone in età lavorativa. “È come se una città grande quanto Roma fosse scomparsa.”

Le ultime stime del Fondo monetario internazionale diffuse ieri danno al nostro Paese una pessima previsione per il prossimo futuro: entro il 2025, con una crescita modesta pari al +0,7%, l’Italia sarà in fondo al G7, cioè l’Occidente. Se il Nord America correrà – USA a +1,9% e Canada a +2,3% – ci sarà un netto miglioramento in Europa. Il Regno Unito uscirà dalla stagnazione crescendo del +1,5%, in linea con la media dell’Eurozona. Francia e Germania accelereranno ancora con +1,3% e +1,4%. Anche il Giappone, ormai storicamente stanco, riuscirà a mettere a segno un rotondo +1%. Roma, però, tornerà alla velocità di crociera alla quale ha abituato osservatori ed economisti di tutto il mondo nel nuovo millennio.

“Il FMI è sempre stato più pessimista di altre istituzioni quando si tratta di prevedere l’andamento economico dell’Italia” ha affermato Carlo Cottarelli nel suo colloquio con il nostro quotidiano. L’ex senatore, già direttore dell’Osservatorio Conti Pubblici Italiani, si dice convinto che nel 2025 l’Italia potrà fare di meglio: “1%, se non qualcosa di più”. Proprio quest’anno, sostiene, “il governo è troppo ottimista, avendo scritto nel Def che arriveremo all’1%”. Stime e ottimismo a parte, nel lungo periodo la musica nel nostro Paese, come ben evidenziato nel grafico che accompagna questo articolo, non cambia. Negli ultimi mesi, si legge in un’analisi pubblicata oggi dal Centro studi di Confindustria, tre fattori stanno frenando la nostra crescita: il costo dell’energia ancora troppo alto per il settore, il venir meno dell’effetto Superbonus e le persistenti strozzature nel sistema commercio internazionale, vedi tensioni geopolitiche nel Mar Rosso.

Accanto a queste ragioni ci sono ragioni strutturali che dovrebbero farci preoccupare molto di più. “C’è un problema generale di bassa crescita della produttività del lavoro a cui non possiamo non collegare, innanzitutto, il collasso demografico” sottolinea Cottarelli. Un Paese che invecchia ha una produttività che cresce meno: «L’evidenza empirica lo conferma: gran parte della produttività che l’Italia ha perso dagli anni Settanta a oggi è dovuta all’invecchiamento della popolazione». Ciò che riduce la produttività è il collasso della popolazione in età lavorativa, che può creare PIL, pagare i contributi previdenziali e così via. “Negli ultimi dieci anni abbiamo perso due milioni di persone in età lavorativa: se pensiamo a una città come Roma, con tre milioni di abitanti di cui due occupati, è come se l’intera capitale fosse scomparsa dal nostro Paese”. Ed ecco un motivo decisivo per cui in questa fase, come ricorda spesso il governo Meloni, si registra un aumento del tasso di occupazione: “Se la popolazione totale scende, è normale che il tasso di occupazione di un Paese sia in salita” . Insomma, se oggi l’Ocse certifica il 62,1% di occupazione in Italia come nuovo record storico, Cottarelli ci ha appena spiegato perché non è tutto oro quello che luccica.

L’altro grande problema strutturale, secondo l’economista, è la difficoltà di fare impresa in Italia, che determina “un basso volume di investimenti”. Gli imprenditori lamentano da almeno quindici anni “un livello elevato di tassazione, la complessità del pagamento delle tasse, la burocrazia e la lentezza della giustizia. Sono gli stessi fattori, tra l’altro, che spiegano perché il Sud registra tassi di crescita addirittura inferiori a quelli nazionali”.

Questo è il ritratto di un Paese le cui ali sono tarpate da enormi problemi strutturali che, negli anni, si è cercato di risolvere con le riforme. Infine, quelle del Piano nazionale di risanamento e resilienza, il famigerato Pnrr che, proprio come il Superbonus, sembrerebbe trasformarsi da panacea a maledizione. Secondo Confindustria, i 42 miliardi di fondi europei che metteremo a disposizione nel 2024 sommati ai 58 previsti nel 2025 – cento miliardi in un biennio, sulla carta cinque punti di Pil – rappresentano un grande volano per il crescita del nostro Paese unitamente all’atteso taglio dei tassi di interesse da parte della BCE. Cottarelli, invece, più ottimista del Fmi sulle potenzialità della crescita italiana, si dice pessimista sul Piano europeo e sulla sua importanza per la nostra economia: “Il PNRR è un processo incompiuto. Stiamo facendo molte cose pro forma e molte altre non le stiamo facendo. E purtroppo, se guardiamo al Def, è il governo a mettere nero su bianco come il Pnrr non cambierà più di tanto lo stato delle cose”.

 
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