la lettera di Yara, studentessa di Gaza in Italia – .

la lettera di Yara, studentessa di Gaza in Italia – .
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Il 25 aprile è il giorno in cui si ricorda la liberazione dell’Italia dal regime fascista. Mai come ora è importante celebrare questo anniversario, guardando in particolare alle vicende delle popolazioni, vessate dalla violenza e dall’oppressione, che lottano per recuperare il diritto alla pace e all’autodeterminazione, ingredienti primi della vera libertà. Per questo motivo abbiamo deciso di pubblicare la storia di Yara Khaled Abushab, Studente di medicina di 22 anni di Gaza, è arrivato in Italia il 1° ottobre 2023 per un programma di studi della durata di un mese. Yara non ha più potuto tornare nella sua terra perché, solo pochi giorni dopo il suo arrivo in Italia, Gaza è stata oggetto di un’aggressione militare israeliana, tuttora in corso. In Palestina la ragazza ha perso parenti, amici e colleghi universitari, uccisi dalle bombe dell’IDF, che hanno raso al suolo la casa della sua famiglia. Mentre continua a sostenere gli esami universitari nel nostro Paese, al quale ha rivolto una domanda di asilo ancora pendente, Yara cerca in tutti i modi di aiutare i membri della sua famiglia a fuggire dalla Striscia. La sua storia funge da megafono per quelle di decine di migliaia di giovani di Gaza, sorpresi dagli orrori della guerra mentre coltivano sogni e speranza per il futuro.

Mi chiamo Yara Khaled Abushab, ho 22 anni e sono una studentessa di medicina. La mia storia inizia nel cuore di Gaza, dove sono cresciuto tra i ritmi spietati della guerra. La mia famiglia è originaria di Jaffa, che fu costretta ad abbandonare nel 1948, a causa della Nakba. Quindi sono già nato rifugiato a Gaza. Qui, dal 2002, sono sopravvissuto a quattro guerre. Il desiderio di fare la differenza è qualcosa che porto con me fin da quando ero bambino. L’istinto di diventare una persona che guarisce in un mondo plagiato dalla sofferenza è emerso durante la guerra del 2008. Ero in seconda elementare. Ricordo la confusione a scuola e la paura negli occhi delle persone intorno a me, ma anche l’immagine che mi ha ispirato: i medici e le ambulanze che corrono per soccorrere i feriti. Ho capito che volevo essere come loro.

Grazie ad uno studio intenso, ho conseguito il massimo dei voti alle scuole superiori, potendo così accedere agli studi di medicina. Il mio percorso accademico è finalmente iniziato a Gaza, presso l’Università Al Azhar, dove ho scoperto la passione per lo studio e ho potuto continuare a coltivare l’impegno verso la mia comunità, attraverso attività di volontariato e sostegno alla lotta per i diritti delle donne. le donne e la valorizzazione dell’impegno giovanile. La mia passione per le lingue e le altre culture, che mi ha portato a conoscerne e parlarne quattro (arabo, inglese, spagnolo e italiano) mi è sembrata la chiave per trovare l’opportunità di fare la differenza nella vita degli altri. È con questo spirito che il 1° ottobre 2023 mi preparo a cogliere un’opportunità unica: uno scambio universitario mi porta a Pescara, iscritta all’Università di Chieti come studentessa per un mese. È una grande opportunità per acquisire esperienza e approfondire la mia conoscenza dei sistemi sanitari all’estero. Ma il 7 ottobre, appena una settimana dopo il mio arrivo in Italia, mi sono svegliato con la notizia dello scoppio della guerra nella mia città. Divento di nuovo un rifugiato, ma questa volta in un paese diverso.

Prima del 7 ottobre vivevamo in una bella casa. Mio padre aveva lavorato duramente per 30 anni per costruirlo. Ogni mattone, ogni trave, portava il peso dei suoi sacrifici e dei suoi sogni. Era pieno di ricordi felici. Ma nel novembre del 2023, dopo l’inizio della guerra, la mia famiglia ha dovuto lasciare il nostro quartiere, andando a vivere in una tenda. Soffrivano il freddo e la pioggia, senza avere accesso ad un bagno adeguato. Immondizia ammucchiata ovunque perché non c’era nessuno a raccoglierla. È stato un momento molto difficile per noi e per molte altre famiglie palestinesi. Alcune persone sono morte perché non avevano abbastanza cibo né acqua pulita. Quando sono tornati, nel marzo del 2024, abbiamo scoperto che la nostra casa era stata distrutta, perché trasformata in un punto militare dalle forze di occupazione israeliane. È stato straziante. Durante la guerra non abbiamo perso solo la nostra casa. Mia zia e i suoi cinque figli sono stati uccisi dai soldati mentre cercavano di scappare. Pensavano di essere al sicuro perché avevano una bandiera bianca che indicava che erano civili, ma furono comunque attaccati. Ho anche perso cinque amici della facoltà di medicina che conoscevo e con cui ho vissuto per cinque anni. Anche tre dei miei giovani cugini di età inferiore agli 8 anni sono morti quando la loro casa è stata bombardata dall’IDF. Le forze israeliane sono entrate nella casa dei miei nonni, dove oltre a loro c’era anche la mia zia maggiore con le sue due figlie e suo figlio. Quest’ultimo è stato ucciso davanti ai suoi occhi. Poi le hanno ordinato di partire con le figlie e i nonni se voleva che sopravvivessero. Quando hanno iniziato a camminare, i soldati hanno lanciato contro di loro bombe a gas.

La casa di Yara Khaled Abushab distrutta dalle forze di occupazione israeliane

Questa è Gaza, la prigione a cielo aperto che amiamo e adoriamo a prescindere dalle circostanze. Abbiamo studiato e lavorato duramente per far crescere la nostra piccola, bellissima città. Una città che dispone a malapena di elettricità e soffre di pesantissime restrizioni idriche a causa dell’occupazione illegale che dura da più di 75 anni e che si espande, in modo cancerogeno, giorno dopo giorno, mentre il resto del mondo sembra restare a guardare e orologio. In Italia mi ritrovo perso nella confusione di un’altra guerra, la quinta che vivo in 22 anni di vita. Ma questa volta è diverso. Questa volta non ci sono. Sono solo in un paese che non conosco, mentre tutta la mia famiglia, i miei amici e i miei cari sono a Gaza. Crescendo e sopravvivendo a quattro guerre, mi ero abituato al suono dei bombardamenti sulla città. Questa volta però sento di non riuscire a colmare la distanza tra me e i miei genitori. Questa volta mi prende un senso di impotenza e disperazione. Perché durante ogni guerra che abbiamo vissuto insieme, tutta la mia famiglia si riuniva in una stanza così, se fossimo morti, saremmo morti tutti insieme. E nessuno di noi si sarebbe addolorato per gli altri. Questa volta non sono nella loro stessa stanza e nemmeno nel loro stesso paese. Faccio fatica con un senso di colpa che mina la mia salute psicologica.

I giorni diventarono settimane e le settimane diventarono mesi. Mi ritrovo a navigare nell’incertezza di essere sfollato in un paese straniero, cercando asilo in un luogo più sicuro per costruire la mia vita. Stanco e senza casa, mi aggrappavo alla speranza di riunirmi alla mia famiglia e ricostruire le nostre vite distrutte, sognando di diventare medico. Nel frattempo, l’unico modo per la mia famiglia di uscire da Gaza è raccogliere più di 10mila dollari a persona per pagare le autorità egiziane che controllano il confine tra Palestina ed Egitto. Mentre, come tanti altri giovani, mi trovo a destreggiarmi tra le impossibili difficoltà di questa situazione, chiedo alla popolazione italiana di condividere le nostre storie, nella speranza che la consapevolezza possa aiutare a costruire un futuro diverso per la popolazione di Gaza.

Oggi, mentre percorro questo filo che collega Gaza e l’Italia, ho una fede incrollabile nella solidarietà collettiva. Porto con me le cicatrici della guerra e gli echi della resilienza che mi definiscono. Davanti a me c’è una strada piena di incertezze e ad ogni passo mi vengono in mente le innumerevoli vite che abbiamo perso, i sogni infranti dalla guerra. Ma rimango determinato. Cerco un futuro basato sulla pace e sulla giustizia e voglio anche costruirlo. Credo che lo spirito umano possa resistere e che la solidarietà trascenda i confini geografici. Possa il mio viaggio da Gaza all’Italia non essere solo una storia di sopravvivenza, ma una prova della forza della speranza e della compassione.

[Yara Khaled Abushab – traduzione di Stefano Baudino]

 
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