le motivazioni della sentenza in 500 pagine – Pescara – .

PESCARA. Con sei giorni di anticipo rispetto alla scadenza del 10 maggio, i giudici della Corte d’Appello dell’Aquila hanno depositato ieri le motivazioni della sentenza di secondo grado per il disastro di Rigopiano, dove il 18 gennaio 2017 una valanga distrusse l’albergo lasciando 29 morti sotto la pioggia. macerie.
SENTENZA DI 500 PAGINE
La sentenza 294/2024 è ora nelle mani della cancelleria che sta scansionando le circa 500 pagine, per poi procedere con le notifiche. Motivazioni che dovranno essere lette con estrema attenzione dagli interessati e non solo dalla Procura generale dell’Aquila, ma soprattutto dalla difesa degli 8 condannati scarcerati dal secondo grado: 3 condanne in più rispetto alla sentenza emesso con rito abbreviato dal giudice di Pescara Gianluca Sarandrea che ha condannato 5 dei 30 imputati che avevano tutti scelto il rito abbreviato durante l’udienza preliminare.
L’APPELLO DEL PROCURATORE
Il Tribunale dell’Aquila, presieduto dal giudice Aldo Manfredidecisero di accogliere il ricorso della Procura di Pescara (300 pagine che miravano a ribaltare il primo grado di sentenza, a loro avviso troppo esiguo), limitandosi però a tre posizioni precise: quella dell’allora prefetto di Pescara, Francesco Provolo (condannato a un anno e 8 mesi per falso e omissione di atti d’ufficio); del suo capo di gabinetto, Leonardo Bianco (condannato per gli stessi reati a un anno e 4 mesi); è quello di Enrico Colangeliil funzionario del Comune di Farindola (assolto in primo grado e condannato alla stessa pena del sindaco Ilario Lacchetta, cioè 2 anni e 8 mesi, per aver commesso gli stessi reati del sindaco). Per Provolo e Bianco la Corte ha precisato, nel dispositivo letto dal presidente Manfredi, che in sostanza anticipa il motivo di quella parziale condanna, che a causa della falsità ideologica, riconosciuta da parte dei due esponenti della Prefettura, «il nesso causale tra le condotte ritenute di falsità ideologica e gli eventi dannosi”, tracciando una netta divisione con le altre gravi denunce relative al disastro.
LE ALTRE CONDANNE
In primo grado, oltre a Lacchetta, fu condannato anche l’allora direttore della Provincia, Paolo D’Incecco ed è ufficiale, Mauro Di Blasioper le quali la Corte ha confermato la pena a 3 anni e 4 mesi ciascuna (c’erano anche due condanne minime a 6 mesi per questioni legate a presunti abusi edilizi della struttura e che non c’entravano nulla con la tragedia).
GLI ENTI COINVOLTI
Una sentenza, il ricorso, che ha puntato il dito contro Provincia e Comune di Farindola, lasciando completamente fuori dai giochi la Regione per la mancata redazione della carta di localizzazione del pericolo valanghe, e la Prefettura per la gestione e lo screening dell’emergenza.
UN ALTRO APPELLO
Ora la valutazione della Procura è focalizzata, e forse ancora di più dopo la decisione di secondo grado, su come i giudici dell’Aquila hanno giudicato il ruolo del prefetto rispetto alla morte e alle lesioni plurime dei sopravvissuti. Un passaggio tecnico su questi aspetti che diventa decisivo per un possibile e ovvio ricorso in Cassazione anche da parte della stessa Procura generale (l’accusa in aula è stata sostenuta dai pm di Pescara incaricati dell’inchiesta, Anna Benigni E Andrea Papalia che ha chiesto ed ottenuto ricorso all’Aquila per questo ricorso) e non solo la difesa del condannato. Il ricorso in Cassazione, se fondato su aspetti tecnici ritenuti fondati, potrebbe portare anche al rinvio ad un’altra Corte d’appello, probabilmente quella di Perugia. “È proprio grazie al ricorso della Procura”, ha detto il pubblico ministero Giuseppe Bellelli a seguito della sentenza d’appello, – che è stato possibile rivedere alcune posizioni”. Il capo della Procura di Pescara lo ha definito “un momento importante nel percorso giudiziario verso l’accertamento della verità”. La decisione della Corte ha cristallizzato due punti fondamentali sui quali la motivazione della sentenza ha approfondito: l’imprevedibilità dell’evento valanghivo, e quindi l’insussistenza del reato di disastro colposo (che resterà comunque la questione più delicata dell’intero processo e che è ormai consegnato alla storia giudiziaria italiana, visto che le sentenze hanno confermato la colpevolezza delle morti, ma non del disastro legato al crollo dell’albergo); e poi l’assenza del reato di depistaggio da parte dei soli agenti prefettizi in relazione alle drammatiche telefonate con richieste di aiuto del cameriere dell’albergo Gabriele D’Angelouna delle 29 vittime.
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