Perché il Grande Torino è grande – .

Perché il Grande Torino è grande – .
Perché il Grande Torino è grande – .

Su Torino e sul suo mito è stato scritto molto, forse troppo. E se è stato soprannominato Grande è perché era davvero qualcosa di unico in termini di gameplay, qualità tecniche, innovazioni introdotte e modernità. Ma se oggi ricordiamo ancora quei ragazzi, se settantacinque anni dopo siamo ancora commossi davanti al loro tragico destino e se anche il Giro d’Italia sente il bisogno di render loro omaggio, è perché il ricordo di quel gesto umano e Il capolavoro sportivo è lì per ricordarci tutto ciò che abbiamo perso.

Mario Soldati sosteneva che ciclismo e pugilato erano, nel dopoguerra, due sport nati dalla fame e dalla povertà: un’occasione di riscatto e di rinascita, il simbolo di una speranza che rifiorisce. Anche per il calcio è stato così. Basti pensare che Valentino Mazzola, nato a Cassano d’Adda, proveniva da una famiglia molto povera e veniva soprannominato “tulèn” per la sua abitudine di giocare per strada con un pezzo di latta, non potendo certo permettersi un pallone. E basti pensare che quando era già Mazzola, forse il numero 10 più significativo della storia del calcio italiano, guadagnava 80.000 lire al mese contro le 16.000 di un operaio FIAT, a dimostrazione del fatto che i calciatori sono sempre stati dei privilegiati ma che l’attuale le disuguaglianze erano allora impensabili e assolutamente inaccettabili.

Senza dimenticare il mitico “trio Nizza”, ovvero i tre scapoli del gruppo (Martelli, Rigamonti e Bacigalupo) che abitavano in una foresteria situata, appunto, in via Nizza.

Potresti incontrarli al bar o per strada, quei ragazzi. Parlarono anche di politica, ad esempio schierandosi senza esitazione dalla parte della Repubblica nel referendum del 2 giugno 1946. Erano, a modo loro, delle star, a cominciare da Guglielmo Gabetto, famoso per i suoi capelli sempre cosparsi di brillantina, ma il non esisteva ancora il divismo esasperato che avrebbe progressivamente avvelenato lo sport e la società nel suo insieme.

4 maggio 1949 – 4 maggio 2024 75 anni fa, sulla collina di Superga, finiva la storia e iniziava la leggenda del Grande Torino

Potremmo citare dati e statistiche, potremmo concentrarci sui cinque scudetti consecutivi vinti, sul record di gol (125) registrati nella stagione ’47-’48 e tuttora imbattuti, sui risultati mostruosi ottenuti al Filadelfia, tutto vero, ma la Grande Torino era tutta un’altra cosa. Fu il ferroviere Oreste Bolmida, capostazione di Porta Nuova, che quando i Granata erano fiacco, suonò la tromba con la quale, durante la settimana, regolava le partenze dei treni, e allora il capitano Valentino si rimboccò le maniche e cominciò una celebrazione dei gol che ha lasciato tutti a bocca aperta. Era un’Italia umiliata che ritrovava la voglia di vivere. È stata la gioia degli ultimi, di chi faceva la fila nei cantieri, di una città operaia che lentamente ritrovava la dignità perduta e di un campione, Coppi, famoso tifoso del Torino, che si unirà ai suoi idoli il dramma di un’ esistenza straordinariamente intensa e purtroppo breve.

Torino profumava di gente, di periferia, di oratorio. E fu anche Tosatti a morire con la squadra, insieme a Casalbore, fondatore di Tuttosport, e Cavallero, portando con sé un pezzo di storia del giornalismo. Si trattava di Ernő Egri Erbstein, un ebreo ungherese, sopravvissuto alla persecuzione nazifascista ma che non poteva nulla contro il destino. Fu proprio la generosità di Mazzola a convincere i suoi compagni ad andare in Portogallo per disputare una partita in onore dell’amico Ferreira. E fu proprio il presidente Ferruccio Novo, che con tanta fatica aveva costruito quel miracolo e lo vide svanire davanti ai suoi occhi.

Oltre cinquecentomila persone piansero per le strade di Torino il giorno dei funerali. Non c’era più un fiore da trovare, tanta fu la partecipazione popolare e il cordoglio di quanti si strinsero attorno ai familiari delle vittime, sentendosi giustamente colpiti da un lutto unanime.
Potremmo citare tanti slogan, tante analisi, tante riflessioni; potremmo ricordare le parole di Montanelli, secondo cui il Toro “non è morto: è solo ‘via’”, oppure la bellissima frase: “Solo il destino li ha vinti”. Ma forse, almeno oggi, per chi vive a Torino la scelta giusta da fare è andare in pellegrinaggio a Superga e per tutti gli altri è riflettere: su come eravamo e come siamo diventati. In effetti, il Grande Torino oggi non potrebbe esistere perché non c’è più quella partecipazione autentica, quell’entusiasmo genuino, quella rabbia che si trasforma in bellezza, la poesia delle masse e il raccoglimento attorno a uno spettacolo che è, allo stesso tempo, se stesso, una fede e un piano di ripresa.

Quei ragazzi avevano sofferto la guerra, la disperazione, la paura; avevano visto morire i loro amici e chissà quanti di loro non erano tornati dai vari fronti dove erano stati mandati dal fascismo a bruciare la loro giovinezza. Ecco perché era diverso, ecco perché era possibile. Nei loro occhi c’erano tante lacrime e altrettanti sorrisi. E ora, settantacinque anni dopo, li ricordiamo con l’affetto tipico degli sconfitti. Infatti hanno vinto e rimarranno per sempre, con il loro aspetto pulito e la loro felicità che nemmeno le difficoltà della vita potranno scalfire. Noi che abbiamo quasi tutto lo abbiamo perso, perché non conosciamo più il sapore di quella felicità. Il loro viaggio continua, ma i veri esuli siamo noi.

Perché il Grande Torino è grande è stato modificato l’ultima volta: 4 maggio 2024 di ROBERTO BERTONI BERNARDI

Perché il Grande Torino è grande
ultima modifica: 2024-05-04T17:05:06+02:00
da ROBERTO BERTONI BERNARDI

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