«Proiettili, altro che fuochi d’artificio»

«Proiettili, altro che fuochi d’artificio»
«Proiettili, altro che fuochi d’artificio»

BARI – L’omicidio Gelao è stato “un omicidio strategico per l’esistenza e l’espansione del gruppo criminale” presieduto da Antonio Busco, “sia perché si trattava di una vendetta per l’omicidio Barbieri, sia perché colpì i vertici del clan Palermiti, con un’azione di forza tese a dimostrare le ambizioni del gruppo Busco”.

A conferma di questa lettura dei fatti accaduti nel quartiere Japigia nella primavera del 2017, quando in tre agguati consecutivi tra gennaio e aprile vennero uccise delle persone in uno scambio di colpi tra clan per la gestione del traffico di droga, ci sono «le infinite vendette e rappresaglie» nei confronti di Busco e del suo complice Giuseppe Signorile «condotte pacificamente» secondo la Dda di Bari dal clan Palermiti-Parisi «con il chiaro obiettivo di allontanarli definitivamente dal quartiere Japigia, nell’ottica di una sorta di “epurazione” dei nemici».

Sono alcune delle tesi che i procuratori antimafia Fabio Buquicchio, Ettore Cardinali e Federico Perrone Capano, con la Procura generale della Repubblica, hanno sostenuto nel ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’assise d’appello di Bari che nel novembre scorso ha smontato alcuni tasselli del puzzle messo insieme dalla Dda sulla primavera di sangue del 2017. Il processo è quello sui due agguati mafiosi del 6 marzo e del 12 aprile 2017, nell’ambito della faida (iniziata il 17 gennaio con l’omicidio del pusher Francesco Barbieri) tra il clan Palermiti e il gruppo criminale capeggiato dal “traditore” Antonio Busco per il controllo del traffico di droga: nel primo, in risposta all’omicidio Barbieri, venne ucciso il criminale Giuseppe Gelao e ferito Antonino Palermiti, nipote del boss Eugenio; nella seconda è morto il pregiudicato Nicola De Santis, autore dell’agguato di marzo (di cui si era autoaccusato il collaboratore di giustizia Domenico Milella, ex braccio destro del boss Eugenio Palermiti). I giudici hanno assolto i due presunti autori materiali dell’omicidio Gelao, Giuseppe Signorile e Davide Monti, e anche gli affiliati del clan Palermiti responsabili delle cosiddette “stese” di stampo camorristico.

I pm, che hanno impugnato le assoluzioni di 16 imputati, contestano la “inattendibilità” che il tribunale di Bari ha attribuito alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sostenendo che le incongruenze nei diversi racconti dipendono dal fatto che i “pentiti” dopo aver “ricevuto la fondamentale confidenza” sul coinvolgimento di Signorile nell’omicidio Gelao, “non hanno prestato attenzione ad altri aspetti. È noto – affermano i pm – che porre troppe domande su questioni così delicate non è opportuno, perché susciterebbe sospetti di eccessiva curiosità al limite della delazione. La norma camorristica prevede che ci si debba limitare a ricevere la confidenza”.

Un altro elemento a sostegno della responsabilità di Signorile e Monti (quest’ultimo ritenuto positivo anche per lo stub) deriva dalle ritorsioni subite nei loro confronti nei mesi successivi al delitto: «si ritiene quindi omessa motivazione – affermano i magistrati antimafia nel ricorso – non considerare un elemento fortemente indicativo del fatto, pacifico, della convinzione dell’intero clan dei Palermiti della propria responsabilità e della loro ostinata volontà di attentare alla loro vita, di distruggerne i beni laddove l’unica ragionevole ragione è che si riteneva facente parte dell’encomio che aveva ucciso Gelao, amico fraterno di Domenico Milella».

Ed è proprio Signorile, intercettato in carcere durante un colloquio con la famiglia, a confermarlo, canticchiando una canzone napoletana per mandare un chiaro messaggio a Busco, sul quale c’era una “taglia da 500mila euro” di cui “tutti parlavano”. , in ambienti penali e non penali”. La canzone diceva: «Sono passati tre mesi (dall’omicidio De Santis, ndr), cosa aspetti a salire in macchina, venire a Bari e, se necessario, sacrificarti? Vuoi aspettare che io o qualcun altro esca?

Poi c’è il capitolo delle “stese”, le spedizioni armate nelle vie del quartiere. Secondo la Dda è “incredibile, irragionevole e illogico”, come invece sostenuto dalla Corte d’assise d’appello, che “nel contesto di una guerra senza esclusione di colpi tra clan mafiosi, venti persone abbiano deciso di mobilitarsi, tra cui alcuni tra i più importanti esponenti dei gruppi criminali in questione, a bordo di almeno dodici motociclette, semplicemente per far esplodere fuochi d’artificio, senza alcuna forza intimidatoria nei confronti di individui avvezzi a un uso indiscriminato della violenza”, evidenziando anche che a Bari “l’accensione di fuochi d’artificio è comunemente utilizzata per festeggiamenti di vario genere e non certo per spaventare pericolosi personaggi criminali”. Un gesto definito “ridicolo” che “anche un bambino avrebbe potuto fare, senza una simile mobilitazione”.

Spetterà alla Corte Suprema valutare questi e altri elementi e decidere se le assoluzioni debbano essere annullate.

 
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