«Bangarang», la resistenza dei bambini sotto l’acciaieria – .

«Bangarang», la resistenza dei bambini sotto l’acciaieria – .
«Bangarang», la resistenza dei bambini sotto l’acciaieria – .

Rumore di zoccoli. Al calare della sera, un cavallo si avvicina a una grande tinozza per bere. Intorno, silenzio, campagna. Sullo sfondo, l’immensa acciaieria Ilva di Taranto, riconoscibilissima. Fin dalle prime inquadrature, Bangarang, il primo documentario di Giulio Mastromauro, dilata lo sguardo dello spettatore, conducendolo in un viaggio nella bellezza e negli ossimori di una terra violata, attraverso le vite dei suoi giovani abitanti, una banda di ragazzi dolci e selvaggi che per certi versi sembrano già adulti. I vicoli bianchi della città vecchia, le piazze deserte e le case popolari dei quartieri dormitorio divorati dalla ruggine delle acciaierie, i tuffi dai pescherecci nel porto. I volti, le voci, i corpi liberi in esplorazione. Candidato come miglior documentario ai Nastri d’Argento e al Globo D’Oro, Bangarang è tra le opere selezionate dall’Ischia Film Festival, festival storico diretto da Michelangelo Messina, giunto alla sua ventiduesima edizione (29 giugno – 6 luglio al Castello Aragonese), che esplora il cinema d’autore italiano e internazionale con un’ampissima selezione di lungometraggi, documentari, anteprime e ospiti internazionali. Le opere scelte quest’anno ruotano attorno a temi etici, politici e sociali in paesaggi simbolici che raccontano il rapporto tra territorio e cinema, il “genius loci” dove nascono le storie. Mastromauro, con all’attivo diversi cortometraggi, tra cui Inverno con Mimmo Cuticchio (miglior documentario ai David di Donatello 2022), incontrerà il pubblico per presentare il film stasera alla Casa del Sole alle 21.00.

Come è nato questo documentario?

Ero a Taranto per un location scouting per un film in lavorazione, mi ha colpito la città e la gente, è scoccata la scintilla, la voglia di raccontarla dal punto di vista della natura e dei bambini che ci vivono. All’inizio volevo escludere il tema dell’Ilva, per concentrarmi sull’infanzia di una periferia industriale di una città del sud. Con il passare delle settimane mi sono accorto che il tema era molto sensibile: Taranto è divisa tra chi combatte e chi continua a difendere la presenza delle acciaierie. Non volevo fare un film d’inchiesta ma mettere lo spettatore di fronte a uno scenario, gettare un seme. Chi guarda può farlo germogliare, dargli un seguito, andando a documentarsi su una realtà molto complessa che non viene raccontata dai media.

The director Giulio Mastromauro

Come si rapportava alla città e ai luoghi?

Ho iniziato con alcune associazioni locali che forse hanno capito l’onestà con cui cercavo di raccontare Taranto. Ho parlato con la gente. Stanno morendo tutti, le case, soprattutto in alcune zone come il quartiere Tamburi, vicino all’Ilva, hanno perso valore di mercato, molte famiglie hanno ancora il mutuo da pagare. All’improvviso mi sono imbattuto nel Teatro Crest, un polo di persone illuminate che lavorano a Tamburi. Giovanni Guarino mi ha aperto un mondo, creando connessioni nei vari quartieri. Ho incontrato ragazzi, molti con situazioni familiari complicate. Ho iniziato a seguirli. Mi sono concentrato su quelli che mi sembravano più vitali e rappresentavano un certo tipo di infanzia. Provengono da zone diverse: la città vecchia, Tamburi, il quartiere Tramontone dove c’è il murale di Giorgio Di Ponzio, morto di cancro a 15 anni, Salinella, Paolo Sesto, Mar Piccolo dove i bambini vanno a tuffarsi nel fiume Taras da cui la città prende il nome. Manca solo la città nuova, separata dal resto da un ponte di pietra. Chi ci vive pensa di essere al sicuro da tutto.

Come hai lavorato con i bambini?

Sono loro che hanno costruito il film. Mi hanno preso per mano, mi hanno portato in posti che non avrei mai scoperto. Ricordo il giorno in cui siamo arrivati ​​al parco eolico in mare, da poco installato. Ho trovato questo gruppo di ragazzi senza adulti che avevano il loro posto segreto per nuotare. È stato uno stupore continuo. All’inizio ho lasciato che toccassero la telecamera, li ho messi a loro agio: non giudicandoli, mettendomi al loro livello. Sarebbe stato impossibile ingabbiarli, erano così selvaggi, così liberi nel loro vivere lo spazio. Anche fissare un appuntamento era impensabile. Il processo è stato complesso, abbiamo dovuto cavalcare costantemente l’imprevisto: è un film d’istinto. Ogni volta che c’era una situazione che aveva il potenziale per diventare una scena, abbiamo composto l’immagine e li abbiamo lasciati liberi.

L’acciaieria sembra improvvisamente diventare una delle protagoniste del documentario, insieme ai bambini e agli animali: delfini, fenicotteri, cavalli, lumache.

Qualunque fosse il punto di osservazione di questi bambini in città, la fabbrica, con le sue ciminiere, era sempre sullo sfondo. C’è il mare, il cielo e poi c’è l’acciaieria, che credo sia due, tre volte più grande di Taranto stessa. Era impossibile escluderla. La sua presenza costante contrasta con la totale incoscienza dei bambini e con la bellezza della natura. Le pecore e i cavalli provengono dalla Masseria di Vincenzo Fornaro che si trova di fronte all’Ilva: è stato costretto a macellare più di trecento capi di pecore per la presenza di diossina. Ha trasformato l’azienda in un maneggio, alleva bachi da seta. Le ciminiere sono un tutt’uno con la città, sembrano spuntare dagli edifici.

Perché «bangarang»?

In questo film non ci sono adulti, ho preso questa decisione all’inizio e l’ho seguita fino alla fine. La realtà vista solo con gli occhi dei bambini ricorda Neverland, Peter Pan. Nel film di Spielberg i bambini pirati gridano “bangarang!”. Questo è un lavoro sulla resistenza: la resistenza delle nuove generazioni e la resistenza della natura che (ri)prende il suo spazio, nonostante tutto.

 
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