Ita, Tim, Ilva. Come incoraggiare l’Italia delle capitali coraggiose – .

Ita, Tim, Ilva. Come incoraggiare l’Italia delle capitali coraggiose – .
Ita, Tim, Ilva. Come incoraggiare l’Italia delle capitali coraggiose – .

In attesa che tutto vada per il verso sbagliato – e in attesa che il nostro Paese crolli, come si suol dire, travolto da una “inevitabile recessione” che al momento però si è manifestata solo in Germania, da una “crisi occupazionale” che al momento ha lasciato il posto a un boom occupazionale e a un “prossimo collasso della nostra economia” che al momento, però, può beneficiare di una crescita record tra i Paesi OCSE, la seconda migliore dopo il Canada, e di un livello di esportazioni altrettanto record, mai raggiunto nella storia recente del nostro Paese – alcune cose che iniziano a funzionare, in Italia, si iniziano a intravedere.

E tra questi, uno molto importante su cui puntare è quello che costituisce il tassello di un mosaico cruciale, attorno al quale si misurerà ulteriormente la reputazione dell’Italia nei prossimi mesi. Il tema è difficile ma è decisivo. Ed è un tema facilmente intuibile se si scandiscono le tre lettere che hanno dominato la giornata economica di ieri: Ita. Conosci già la novità: ieri il gruppo tedesco Lufthansasorprendentemente non dando peso alla grave notizia dell’addio di Lucia Annunziata alla Rai, desiderosa di denunciare le oscenità commesse da questo governo, entrata ufficialmente nel capitale di Ita Airwayscon una quota del 41 per cento, e con la possibilità, ancora tutta da mettere sulla carta, di arrivare al 90 per cento entro il 2025. Il governo Meloni, in questa partita, è riuscito dove il governo Draghi ha fallito – Draghi voleva vendere Ita a Lufthansa, il suo Mef ha affidato il dossier ad Air France, Meloni via Giorgetti ha tolto il dossier ad Air France e lo ha dato a Lufthansa – e per la prima volta nella storia recente della vecchia Alitalia si può detto che il gioco delle portabandiera (patrioti che vendono le stesse bandiere nazionali: wow!) è finalmente definito, anche grazie a un governo che fortunatamente ha preferito i consorzi di capitali coraggiosi ai vecchi consorzi di capitani coraggiosi.

Il Pnrr è importante per la reputazione dell’Italia, così come la gestione del suo debito, ma è altrettanto importante la risoluzione di alcune pratiche in cancrena. E dopo aver risolto la questione Ita, dopo aver messo in sicurezza l’impianto di Priolo (è passato dalle mani di Lukoil a quelle dei ciprioti di Goi Energy, sperando che questi ultimi non siano solo uno schermo dietro cui si nascondono gli investitori russi), il governo sa che la sua reputazione, il suo rapporto con i mercati, il suo rapporto con i privati, oggi passa attraverso altre due partite non meno strategiche del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Due partite su cui si misurerà la capacità del governo di fare un ulteriore passo dalla stagione della propaganda a quella della realtà: Tim e Ilva.

Su Tim il gioco è tutto sommato semplice. Entro il 9 giugno il cda della società, che ha un debito di circa 28 miliardi di euro (boom!), dovrà valutare le offerte ricevute per acquisire la sua rete (attenzione: più passa il tempo e più lo stock peggiora) . Una prima offerta sarà quella del fondo americano Kkr (che ha già proposto di acquistare la rete mettendo sul piatto ventuno miliardi di euro, dieci in meno di quanto starebbe chiedendo il principale azionista di Tim, Vivendi). La seconda offerta (su cui però pochi puntano) dovrebbe essere quella del consorzio Cdp-Macquarie (fondo australiano con cui Cdp è azionista di maggioranza di Open Fiber). In Tim il governo è indirettamente parte in causa, avendo il 9,8 per cento della società attraverso Cdp (il presidente di Cdp siede nel cda di Tim: Giovanni Gorno Tempini).

E il ruolo del Ministero dello Sviluppo e del Mef sarà importante non solo per valutare l’offerta (meglio non fare i pignoli con un debito di quelle dimensioni) ma anche per trasformare ogni singola rete che dovesse nascere dopo la vendita da parte di Tim della sua rete in un’occasione per coinvolgere i privati ​​nel progetto. Il tema è evidente anche qui: dopo aver sognato di nazionalizzare la Tim (vecchia linea del sottosegretario Alessio Butti, dirigente dell’innovazione del governo poco illuminato), riuscirà l’esecutivo a creare le condizioni per salvare la Tim non con i soldi dello Stato ma con i soldi dei privati? Stesso discorso per Ilva, dove il gioco è se possibile ancora più complesso. Il governo, consapevole del fatto che non esiste più l’attuale quota di maggioranza nell’Ilva, è diviso tra chi vorrebbe dare a Mittal i soldi necessari alla decarbonizzazione della fabbrica (lo vuole Raffaele Fitto) e chi invece aumenterebbe la quota pubblica con un passaggio dal 40 al 60 per cento del controllo statale (linea Adolfo Urso) provando a vendere la fabbrica ad altri privati ​​dopo aver avviato i progetti di decarbonizzazione (più o meno seguendo lo stesso schema utilizzato dal Mef con It) . Difficile dire quale sia la strada migliore tra le due (la logica direbbe che Fitto ha ragione, ma avendo Mittal deconsolidato, come si suol dire, la sua partecipazione in Ilva, e avendo promesso di non investire più nella società, ecco perché Ilva ha seri problemi di liquidità, creare un sostituto al più presto è forse la soluzione ideale). Tuttavia, è difficile non notare che, anche qui, la reputazione del governo si giocherà lungo un filo delicato: dimostrare, non solo ai mercati, che l’interesse nazionale di un Paese non si difende sventolando bandiere patriottiche, ma facendo di tutto e di più per mettere i privati ​​nelle condizioni di scommettere sull’Italia. È successo su Ita. E Lucia Annunziata ci perdonerà se diciamo che questo è un punto a favore del governo.

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