Satnam Singh, affinché nel paese degli schiavi tutto non rimanga come prima – .

Satnam Singh, affinché nel paese degli schiavi tutto non rimanga come prima – .
Satnam Singh, affinché nel paese degli schiavi tutto non rimanga come prima – .

È lunedì 17 giugno. La notizia arriva all’improvviso e sorprende solo chi non conosce le condizioni di vita e di lavoro dei migranti impiegati come braccianti agricoli nel Fatto in Italia.

I giornalisti cominciano a chiamare senza sosta al cellulare. Poi le prime conferme e il nome della vittima. Si chiamava Satnam Singh, aveva 31 anni e lavorava come bracciante agricolo senza contratto e regolare permesso di soggiorno, come altre 235mila persone, in condizioni di grave sfruttamento, violate nella sua dignità di uomo.

Lavorò in una delle 7.000 aziende agricole dell’Agro Pontino e visse con la compagna in una baracca di proprietà di una famiglia italiana che, sulla povertà di questa famiglia e di decine di altre persone, costruì la propria Attività commerciale. I padroni in questa terra, che dista solo 80 chilometri dal Parlamento, non sono solo alcuni imprenditori agricoli ma anche commercialisti, avvocati, consulenti e amministratori vari. Oltre a una parte della politica, che raccoglie il consenso dei ricchi padroni e non si cura dei poveri braccianti stranieri. Anche perché questi ultimi non votano, condizione fondamentale per realizzare lo slogan voluto “Italia agli italiani”. Non a caso il Pontino è feudo della peggiore destra occidentale.

Nelle ultime due legislature, in questo territorio, ad esempio, sono stati eletti l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni, la presidente della commissione parlamentare antimafia Chiara Colosimo di Fratelli d’Italia, il senatore di Forza Italia Claudio Fazzone, l’eurodeputato di Fratelli d’Italia Nicola Procaccini, il leghista Claudio Durigon e tanti altri.

La dinamica dell’incidente emerge subito e lascia terrorizzati. Satnam stava lavorando a una macchina che tende il nylon sotto il quale crescono le verdure e la frutta che finiscono sulle tavole di tutti gli europei. Ma qualcosa all’improvviso va storto. Satnam si avvicina a quella macchina infernale, cerca di risolvere il problema e all’improvviso si ritrova con il braccio mozzato. La sua compagna, anche lei indiana e operaia, assiste alla terribile scena insieme ad alcuni colleghi di lavoro. Le urla raggiungono il cielo. Il titolare, trattandosi di un proprietario rigorosamente italiano, interviene immediatamente e, secondo la ricostruzione finora elaborata dagli inquirenti, carica nel suo furgone Satnam e la moglie, che nel frattempo continuano a urlare di disperazione e dolore. Poi prende il braccio appena mozzato e lo getta in una scatola di plastica nera, di quelle usate per contenere la frutta più o meno matura, che getta frettolosamente nel suo veicolo.

Durante il viaggio non vengono ascoltate le suppliche del giovane compagno di Satnam di recarsi in ospedale. Il proprietario si dirige verso Borgo Santa Maria, in aperta campagna, tra i comuni di Latina e Cisterna, per fermarsi davanti alla casa di Satnam. Qui l’orrore raggiunge livelli inimmaginabili, perché il giovane indiano viene scaricato come un sacco di patate marce davanti alla porta della sua baracca. Poi la moglie viene fatta scendere e infine quella cassetta nera della frutta con dentro il braccio viene gettata vicino ai bidoni della spazzatura. L’allarme viene lanciato poco dopo. Intervengono i Carabinieri e chiamano l’elisoccorso che trasporta urgentemente Satnam all’ospedale San Camillo di Roma. Inizia un calvario che durerà due giorni e che si concluderà con la morte di quel giovane e innocente ragazzo indiano. L’autopsia parla chiaro. Satnam avrebbe potuto essere salvato se non fosse stato scaricato davanti a casa sua.

L’Agro Pontino non può essere rappresentato da questa storia ma allo stesso tempo è il territorio in cui storie come queste si ripetono da almeno quarant’anni. Non tutti gli imprenditori agricoli sono come il proprietario di Satnam ma non illudiamoci, molti lo sono. È la banalità dei padroni, delle agromafie, dello sfruttamento, della schiavitù contemporanea che continuiamo a negare perché ci fa orrore pensare che in un Paese come l’Italia, democratico e fondato sul lavoro, ci siano degli schiavi. Eppure è così.

Satnam non è l’eccezione che conferma la regola, ma l’intreccio che lega migliaia di sfruttati, a volte anche cittadini italiani, che vedono erigere sulle loro spalle la ricchezza di questo Paese fondato sullo sfruttamento.

Secondo l’istituto Eurispes l Attività commerciale l’ammontare complessivo dell’agromafia si aggira intorno ai 25,4 miliardi di euro. Soldi estorti ai lavoratori di questa terra, che alimenta un sistema imprenditoriale e politico destinato a restare sempre uguale, ovvero autoritario, fascista, ricchissimo, menefreghista.

Molti dicono che quello che è successo a Satnam è stato disumano. Io credo invece che sia pienamente umano, cioè reso possibile dall’uomo che ha deciso di sfruttare un altro uomo fino alla morte e di nascondere le sue responsabilità trattando quest’ultimo come una cosa, uno strumento rotto, un oggetto inutile. Nell’area pontina e in Italia ci sono donne immigrate e italiane che nel nostro mercato del lavoro, che non è altro che una versione teorica della realtà sociale, vengono ricattate sessualmente, violentate, maltrattate. Alcune lavoratrici indiane vengono invece indotte ad assumere sostanze dopanti per sopportare gli estremi disagi legati allo sfruttamento e all’emarginazione a cui le abbiamo destinate. A volte si suicidano, nel silenzio generale che cerchiamo di rompere con inchieste, reportage e libri che faticano sempre ad arrivare sui giornali corrente principale.

Intanto, una folla di incompetenti si abbatte come avvoltoi su un cadavere, su questa tragedia senza precedenti. Affermano di avere tutto sotto controllo, di prendersi cura della compagna di Satnam, e soprattutto rilasciano dichiarazioni su dichiarazioni, in un turbinio di interviste che evidentemente gli stanno dando alla testa. La tragedia diventa teatro, o meglio pubblicità, e della peggior specie. Viene fatto il nome della compagna di Satnam, come se fosse la cosa più normale del mondo, affermano di averle prestato immediata assistenza legale e psicologica, dichiarano di averla portata in un posto sicuro. Tutto falso. L’ansia dell’incompetenza rende questa tragedia il classico esempio di ciò che non si dovrebbe fare in questi casi. È profondamente indignato assistere a questo indecente ballo delle debuttanti sui cadaveri di Satnam e sulla persona di quella giovane ragazza indiana.

Cgil e Flai organizzano una manifestazione a Latina, per il sabato immediatamente successivo alla tragedia, per chiedere verità e giustizia. La piazza scelta si chiama “della Libertà”. Non poteva esserci nome più appropriato. Del resto, è la stessa piazza dove Cgil, Flai Cgil e In Migrazione hanno organizzato, il 18 aprile 2016, il più importante sciopero dei braccianti stranieri sfruttati mai organizzato in Italia. Vi prendono parte oltre 2.500 persone.

Notevole, però, l’assenza di Cisl e Uil, che martedì prossimo scenderanno in piazza insieme ad una minoranza della comunità indiana. Martedì dentro la piazza si vedono le bandiere della Lega e dal palco, di finti leader della comunità indiana, si sentono parole che si sciolgono come neve al sole davanti ai loro comportamenti e interessi, a volte, secondo ricostruzioni giornalistiche, di carattere illecito.

Anche i braccianti indiani scendono in piazza con la CGIL. Sono tanti e indignati. Purtroppo vengono subito vestiti con bandiere e cappelli che non conoscono. Erano lì per un loro connazionale morto in modo orrendo e perché riconoscono l’impegno serio, competente e costante della CGIL. Tuttavia, sarebbe stato meglio lasciarli liberi di dire e vestire come meglio credevano.

Dal palco della Cgil si levano slogan fondamentali. Sindacalisti, associazioni e personalità varie chiedono l’annullamento dei decreti Bossi-Fini, sicurezza, flussi, Cutro e Caivano. E ancora processi più rapidi, migliori attività investigative e di non sostenere più ministri che parlano di sostituzione etnica e carico residuo mentre dichiarano che i poveri in Italia mangiano meglio dei ricchi. L’evento è suggestivo, importante, necessario e segna una svolta. Certo, sarebbe stato meglio vedere su quel palco anche i braccianti indiani sfruttati alzare la voce e gridare la loro indignazione. Anche questo è stato un grave errore che rischiamo di pagare caro.

Intanto si apprende che l’azienda agricola di proprietà della famiglia Lovato, dove è stato ritrovato il morto Satnam, era già stata indagata dal comando dei Carabinieri per sfruttamento qualche anno fa. Tuttavia sono passati anni, troppi anni senza che a quell’indagine seguisse un processo. Non vale quindi la pena chiedere semplicemente ulteriori controlli, quando questi vengono fatti e i risultati restano chiusi nel cassetto di qualche procura. Le realtà sociali cambiano non se vengono solo indagate o studiate ma se si interviene direttamente con azioni e fatti concreti.

Qualcuno si chiede se, dopo questa tragedia, tutto rimarrà come prima. Non ci sono dubbi. Sarà così. Tre morti al giorno sul posto di lavoro significano tre Satnam che ogni giorno perdono la vita, lasciando mogli, amici, parenti e figli nel dolore più assordante e inascoltato. E poi c’è l’indifferenza di molti italiani.

Il giorno della morte di Satnam, Borgo Santa Maria avrebbe dovuto festeggiare il suo santo patrono. Quella sera, con la tragedia ormai di dominio pubblico, gran parte della popolazione locale era in piazza a ballare, cantare e mangiare panini con la porchetta. Era morto solo un bracciante indiano. Per tenere alta l’attenzione sulla vicenda, la CGIL intende organizzare una manifestazione nazionale il 6 luglio, sempre a Latina, per spingere l’intero Paese verso azioni e politiche per risolvere lo sfruttamento. Dobbiamo partecipare? Sì, nonostante tutto, dobbiamo. Per tutti i Satnam che continueranno a morire e per chi sta lottando per un’Italia migliore di questa. Meglio provarci che restare a casa a leggere i necrologi del giorno dopo.

Marco Omizzolo è sociologo, presidente di Tempi Moderni e professore di sociopolitica delle migrazioni presso l’Università La Sapienza di Roma

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