È uno di quegli uomini che credono che senza intelligenza non si arriva da nessuna parte, uno che non si vergogna della nostra tradizione calcistica
L’allenatore italiano del Real Madrid Carlo Ancelotti reagisce mentre parla durante una conferenza stampa all’Etihad Stadium, a Manchester, nel nord-ovest dell’Inghilterra, il 16 aprile 2024, alla vigilia della partita di ritorno dei quarti di finale della UEFA Champions League contro il Manchester City. (Foto di Oli SCARFF/AFP)
Poco prima che scoppiasse il Covid, Carlo Ancelotti era al Liverpool al fianco dell’Everton. Nella cittadella azzurra, Ancelotti ha chiacchierato con gli uomini del suo staff. «Lui – ha detto presentando un uomo dello staff – ha lavorato con Trapattoni in Irlanda». E poi, allontanandosi, gli disse: «Trapattoni, numero uno».
Carlo Ancelotti è uno di quegli uomini convinti che la specializzazione sia importante ma che conti meno senza l’intelligenza. E intelligenza significa adattamento alle situazioni. Significa saper essere l’incudine e il martello a seconda delle circostanze. E a Manchester, contro l’esercito di Guardiola che ha una squadra e una panchina di ultralusso, Ancelotti è riuscito a far capire alla sua squadra che servirebbe intelligenza. Oltre al sacrificio di restare ai box. Per chiudere ogni gap. Perché è sciocco andare a cercare una bella morte quando puoi sopravvivere.
E Ancelotti con il suo Madrid è sopravvissuto al ritorno all’Etihad. Ha preso l’iniziativa con Rodrygo. Poi ha resistito. Ha subito il gol dell’1-1. Ha dovuto togliere dal campo i suoi attaccanti. È andato ai rigori, li ha presi con Lucas Vazquez, Nacho, Rudiger, tre difensori e ha vinto.
È stata una battaglia. Ancelotti ha vinto da allenatore. Soprattutto, ha vinto come generale. È un uomo che non si vergogna della tradizione del calcio italiano. Anzi. È uno degli ultimi simboli del Made in Italy. Mattarella ci pensi, nominatelo senatore a vita. È molto più di un allenatore.
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