Auger Aliassime-Lehecka, Fritz-Rublev. Le semifinali maschili del Masters 1000 di Madrid, uno dei 14 tornei più importanti della stagione, costringono organizzatori e addetti ai lavori a riflettere: dove sono finiti i “grandi nomi”? Un fine settimana finale di un evento senza Djokovic, Sinner, Alcaraz o Medvedev è attraente per il pubblico (attenzione: non per la nicchia, ma per il grande pubblico)? La risposta è, ovviamente, no. Se il discorso sulle cause della “morte” dei top 4 si limitasse alla semplice competizione e alla bravura dei cosiddetti outsider saremmo qui a parlare degli zero titoli di Djokovic nel 2024. O dell’allergia alla terra di Medvedev. Ma il ritiro pre-Madrid del serbo, i ritiri (precauzionali e non) del russo e del nostro Jannik e il dolore del giovane Alcaraz (che ha saltato Montecarlo e Barcellona e non sarà a Roma) spostano l’attenzione su un aspetto fondamentale per un tennista, a maggior ragione se in corsa per la posizione più ambita della classifica: il calendario. 36 ATP 250, 14 ATP 500, 9 Masters 1000 (il decimo arriverà in Arabia Saudita dal 2027?) e 4 Slam a cui si aggiungono ATP Finals, qualificazioni, gironi e finali di Coppa Davis, Coppa United e quest’anno anche le Olimpiadi. Da inizio gennaio a fine novembre si finisce in un tritacarne con pochissime settimane di riposo (da includere negli spostamenti da un torneo all’altro). Un tour de force che porta inevitabilmente i migliori atleti al mondo a considerare un Masters 1000 come un “allenamento” o a presentarsi in conferenza stampa come il numero 2 del seed e detentore del titolo confessando “Sarò felice se riuscirò a vincere 3/4 partite”. C’è qualcosa di sbagliato.
