Alla Fidai Film. Incontro con il regista Kamal Aljafari – .

Vincitore del Premio della Giuria nel concorso Burning Lights di Visions du Réel, la sezione più sperimentale del festival svizzero, Alla Fidai Film è l’ultimo lavoro del regista palestinese Kamal Aljafari. Un autore abituato a esplorare i confini narrativi del cinema intrecciando finzione e saggistica, documentario e video arte, lavorando su archivi e find metraggio per liberare il potere sovversivo insito nelle immagini.

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Durante l’intervento militare in Libano nell’estate del 1982, l’IDF (Forza di Difesa Israeliana) saccheggiò e devastò l’archivio del Centro di Ricerca Palestinese a Beirut. L’archivio conteneva più di 25.000 documenti storici sulla Palestina, inclusa una raccolta di immagini e filmati che costituiva la più grande raccolta di storia palestinese al mondo. L’intera memoria visiva del Paese divenne così un bottino di guerra, ribattezzato anche per ragioni ideologiche. In Alla Fidai Film, Kamal Aljafari recupera queste immagini perdute da tempo creando una contro-narrativa sotto forma di sabotaggio cinematografico, capace di ripristinare una visione diversa di un popolo che è stato doppiamente saccheggiato, sia della sua terra che della sua storia. Di seguito il resoconto dell’incontro con Aljafari.

Come è nata l’idea per questo film?

Alla Fidai Film è un’opera che parla di un popolo che ha perso tutto e non ha più una terra. Queste immagini provengono da un archivio israeliano a cui sono riuscito ad accedere qualche anno fa. Si tratta per lo più di materiale danneggiato su VHS, un formato con cui ho lavorato spesso negli ultimi anni. La prima idea era quella di creare una contro-narrativa con un film di sabotaggio dell’immagine saccheggiata. Fidati di me [singolare di Fedayyin] è il termine usato per chiamare i partigiani palestinesi che hanno compiuto azioni di sabotaggio contro i coloni israeliani. Così ho deciso di fare un film Fidai.

Attraverso le immagini dell’archivio viene ricostruito un percorso ideale del popolo palestinese, prima e dopo la Nakba del 1948. Come hai lavorato da questo punto di vista?

Tutto quello che si sente in questo film è stato ricostruito o recuperato, mentre l’aspetto visivo ha richiesto una pratica di reinterpretazione. Il lavoro principale sul materiale è stato trovare un significato a queste immagini così diverse e distanti tra loro, è stata come una missione, ma con grande fatica siamo riusciti a trovare quello che cercavamo. Secondo me la cosa migliore è sempre cominciare dall’inizio, in questo caso l’inizio della storia è la scelta di alcune grandi nazioni del mondo di promettere la Palestina ad altri popoli. Stiamo parlando di una delle nazioni più antiche di sempre con città dal passato glorioso come Gerusalemme. Ma sarebbe assolutamente sbagliato identificare quella data come l’inizio della violenta occupazione del territorio palestinese, basti ricordare come nel 1936 gli inglesi uccisero più di 20mila palestinesi a causa della rivolta contro il piano di spartizione PEEL. In quel periodo furono internati 50.000 palestinesi e molte delle loro case furono demolite o bruciate. Dopo il 1948 la persecuzione continuò anche in altri territori dove i palestinesi si rifugiarono, come il Libano e la Cisgiordania. Questo film è stato concepito molto prima del 7 ottobre 2023 ma il conflitto resta lo stesso così come il metodo, ma si percepisce la ricerca di una soluzione finale da parte dei leader israeliani. Alla Fidai Film è la storia di una nazione che lotta contro il colonialismo da più di un secolo.

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Tra le numerose immagini presenti nel film ci sono cortei, sommosse, ma anche scene di apparente vita quotidiana. Come hai gestito questa grande quantità di materiale?

Questo materiale è stato catalogato per l’esercito israeliano e per chiunque volesse scovare informazioni sul passato del popolo palestinese. Hanno deciso di etichettare le immagini in modo molto curioso, descrivendo praticamente l’azione ma evitando di raccontare il contesto e la situazione specifica. La mente di un burocrate funziona in un modo molto strano. Le immagini presenti nell’archivio sono state girate da registi palestinesi che hanno raccontato la loro vita quotidiana come mezzo per esprimere se stessi e per documentare l’occupazione. Il mio impegno è stato quello di ridare significato al loro lavoro, di elaborarne l’immagine per rivendicare in un certo modo la nostra storia.

Come hai lavorato sul suono e sulle canzoni?

I video che avevo spesso erano senza audio o comunque con l’audio rovinato. Dal mio punto di vista, creare suono per qualcosa che non ne ha è come dare voce a qualcuno che non ne ha e non ne ha mai avuta. Il suono doveva rappresentare la continua violenza che si percepisce quando si parla di colonialismo. Durante il processo ho trovato elementi che sono diventati molto importanti, come ad esempio alcune canzoni. Uno di questi proveniva da un film di propaganda israeliano realizzato per parlare della comunità palestinese rimasta in Israele dopo il 1948, chiaramente rappresentata in modo del tutto falso e parziale. Quella canzone scelta per quel video aveva l’effetto opposto, sabotava dall’interno il messaggio che i coloni volevano mandare, quindi ho deciso di sceglierla anche per il mio film.

Con questo film sei riuscito ad aprire una finestra su un territorio che molti di noi conoscono solo attraverso le immagini dei telegiornali. Ci avete dato una visione più umana e autentica della Palestina.

Per me sabotare il processo colonialista significa anche questo. Le immagini d’archivio furono rubate dagli israeliani proprio perché la loro autenticità avrebbe potuto danneggiare l’occupazione. Nascondere e censurare è il cuore del processo culturale del colonialismo. Per questo all’inizio io stesso, pur essendo palestinese, mi sentivo terrorizzato e intimidito da quelle immagini.

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