Santana si rifà alla psichedelia del rock latino degli anni d’oro – .

Santana si rifà alla psichedelia del rock latino degli anni d’oro – .
Santana si rifà alla psichedelia del rock latino degli anni d’oro – .

Cinque anni fa, il 7 giugno 2019, usciva il venticinquesimo album Carlo Santana “L’Africa parla”. Le sessioni di registrazione dell’album si sono svolte presso lo Shangri La Studio di Malibu (California) con la supervisione artistica del produttore Rick Rubin. Il chitarrista di origine messicana, nel suo stile perennemente rilassato, lo ha descritto come “un periodo di dieci giorni gioioso e stimolante”, con la maggior parte delle canzoni che richiedevano solo una ripresa. Quella che segue è la recensione che ha scritto per noi Claudio Todesco.

“Ogni cosa è stata concepita qui in Africa, culla della civiltà”, recita Carlos Santana in apertura di “L’Africa parla”. La frase è la porta di accesso a un disco in cui il chitarrista mescola la musica africana con il rock latino, il rock-blues, il funk, la fusion, la vecchia psichedelia. Pur non contenendo brani memorabili o invenzioni fuori dal comune, l’album convince per la forza delle esecuzioni, la carica ritmica, la furia gioiosa. Senza fare nulla, o almeno così sembrerebbe, il produttore Rick Rubin regala al pubblico un Carlos Santana meno simpatico e forzatamente seducente di quello dei progetti all-star.

“Africa speak” è innanzitutto un disco dei Santana, band che oggi comprende membri della formazione anni ’90 come il bassista Benny Rietveld e il percussionista Karl Perazzo, e poi la moglie del chitarrista Cindy Blackman alla batteria, il tastierista David K. Mathews, chitarrista Tommy Antonio. I cantanti Andy Vargas e Ray Greene sono coinvolti nei cori mentre la voce principale è quella di Buika, cantante nata a Maiorca da genitori della Guinea Equatoriale, già vincitrice di un Latin Grammy. Ha un modo di cantare appassionato, potente e flessibile, e un tono grave e crudo, quasi maschile, per nulla irreggimentato dalle leggi del pop, perfetto per un album intenso che si rifà al rock latino psichedelico degli anni d’oro.

Cantato prevalentemente in spagnolo, registrato nel corso di una decina di giorni, “Africa parla” è un lavoro esuberante e colorato che inizia con il rito propiziatorio della title track e prosegue per un’altra ora in un trionfo di suoni acuti di chitarra, corre sull’Hammond, tappeti congas, grandi performance vocali. È uno sforzo collettivo. Santana estrae dalla chitarra il suo caratteristico timbro e centra frasi melodiche notevoli anche se gli assoli che entrano nella memoria e nella storia appartengono inevitabilmente al passato. Si circonda di vari coautori, tra cui la stessa Buika per i testi, adatta “Abatina” di Calypso Rose scritta tra gli altri da Manu Chao e la trasforma in “Breaking down the door”, una cumbia con ospiti il ​​figlio Salvador e Ray Greene. al trombone. E qua e là cita anche se stesso, perché no.

E ancora, dà voce agli “invisibili” della nostra società in “Los invisibili” tratto da “Berra berra” di Rachid Taha, parte per la tangente con assoli sostenuti dall’inesauribile energia delle congas di Perazzo e della batteria della moglie, ospita Laura Mvula alla voce in “Blue skies”, uno dei due brani in inglese, una sorta di rituale magico jazzistico di 9 minuti.

Suona con il funk in “Paraisos quemados” con l’aiuto di Rietveld, altro ottimo co-protagonista dell’album, e piazza una canzone come “Yo me lo merezco” che inizia come una cosa dei Pearl Jam e finisce con un assolo d’altri tempi di 3 minuti. Insomma, Santana mette alle spalle le sue cose più pop e seducenti per registrare una musica radicata nella storia, ma non caricaturale, un disco che forse non sorprende, ma appassionante, grezzo e di successo.

 
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